Io in dieci righe: Natalia Fagioli

Il dialetto è stata la mia lingua madre, l’italiano quella che la zia Norma, sarta da uomo, mi invitava caldamente ad usare, corretto poi a scuola e che non ho ancora terminato di perfezionare. Una famiglia, la mia, patriarcale e allargata: nonni, bisnonni, fratellastri e sorellastre del babbo, zii e zie acquisite. E poi quelle che oggi si direbbero apprendiste, tutte ragazze, nel “laboratorio” da sarta, in realtà una parte della grande stanza da letto della nonna, e ancora  braccianti agricoli che lavoravano nel podere con il resto della famiglia e mangiavano alla nostra tavola a colazione e a pranzo. Conservo nei miei occhi dettagli di molti volti, di vestiti, di piedi, di mani, di scarpe. Riascolto frammenti di voci, nei vari dialetti di provenienza di ognuno: quello della collina di Roversano, di Mercato Saraceno, della piana che poi è diventata il “quartiere al mare”. C’è stato anche un “garzone”. Veniva da un orfanatrofio di Benevento. Dalle narici aspiro odore di erba, di polvere, di sudore ed anche di latte acido: quello che Mario, un bracciante, si lasciava dietro in primavera quando arrotondava le entrate facendo formaggi che poi vendeva. Un nido d’infanzia molto frequentato, il mio, un valore aggiunto che ho compreso solo in età matura, uno scrigno a cui non ho ancora terminato di attingere, da quando ho scoperto il piacere della scrittura.