Un asilo per Aylan – prof. Fulvio Pezzarossa, presentazione all’e-book Mari&Muri

Fulvio Pezzarossa*

Un asilo per Aylan[1]

Ingenue aspettative e una disinvolta applicazione consentita dall’incerta delimitazione disciplinare hanno attirato sull’intercultura critiche ad atteggiamenti convenzionali e spesso corrivi a un buonismo rassicurante. Talora si propone in nuova veste l’addomesticamento dell’estraneo, o la sua riduzione infantile comunque dominabile, nella logica di una soccorrevole disponibilità a facilitare un’integrazione che impone uno scambio univoco di valori (Walter Baroni, Contro l’intercultura. Retoriche e pornografia dell’incontro ombre corte, 2013). Diverso il progetto a lungo sperimentato, e stabilizzato attraverso volumi di soddisfacente successo del Laboratorio di scrittura creativa interculturale, che il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica sviluppa con la matura collaborazione dell’Associazione Eks&Tra, e la feconda presenza tutoriale di Wu Ming 2. Si tratta infatti di uno strumento ricco di inventiva anche nel recente assetto di corso universitario, non risultandone condizionata la capacità di sintonizzarsi sullo scorrere vertiginoso del reale.

Meraviglia il rincorrersi precipitoso degli avvenimenti rispetto ai tempi burocratici, che imponevano nel giugno scorso la scelta di una traccia tematica indicata nel calembour Mari e muri, avvertendo i primi segnali di uno spostarsi dei fronti di attrito rispetto al fenomeno delle migrazioni dalla dimensione liquida e instabile, psicologicamente distante del Mediterraneo, a spazi solidi e vicini, sparsi nel continente europeo. La proposta mirava alla continuità col tema dell’anno precedente, affidato al volume Un passo dopo, incontrando la complessa stabilizzazione dei nuovi cittadini all’interno dei nostri quadri sociali un infittirsi dei punti di inciampo, misurandosi con la strategia disumana del respingimento, tenace obiettivo di spinte e frustrazioni nel corpo della incoerente comunità europea.

Il volume di Wendy Brown, Stati murati, sovranità in declino (Laterza, 2013) è strumento obbligato per la puntuale disamina delle istanze profonde, di carattere collettivo come di ambito psichico individuale, che motivano la scelta di politiche ostative di materiale e monumentale saldezza, e rivelano piuttosto il declinare della sovranità in capo a sistemi politici fragili e perciò spietati. È la strategia illusoria e disperata di una comunità europea dissoltasi nei gorghi di una vera teologia delle fortificazioni, individuate come ribalta di massima scenografia e riproducibilità mediatica, con tutti gli aspetti della teatralizzazione (Paolo Cuttitta, Lo spettacolo del confine. Lampedusa tra produzione e messa in scena della frontiera, Mimesis, 2012), destinata ad assorbire l’inquietudine che emana dallo sgretolarsi di salde certezze. Confini e muraglie vorrebbero contenere il panico montante da luoghi, voci, abitudini e costumi che indicano un precipizio creato da ben altri motivi di crisi; si caricano perciò del compito tutto emozionale di arginare le spinte ad una riflessione critica interna, alimentando obiettivi e punti di osservazione dai quali promana l’esigenza illusoria di rinsaldare e mantenere, in forme tutte delegate, la funzionalità di una democrazia murata. Perché infatti barriere ostacoli muri reticolati sensori droni, cuciti coll’onnipresente e animalesco filo spinato (Olivier Razac Storia politica del filo spinato, ombre corte, 2001), assumono il compito tecnologico e distanziato di incidere spietatamente sulla massa degradata di persone spinte al punto estremo della nuda vita (Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 1995), riducendole inermi in balia di ogni vessazione arbitraria, imprigionandole in sistemi efficienti di contenimento sorveglianza abiezione annullamento respingimento e cancellazione, che gli anticorpi scaturiti da Auschwitz e dintorni non hanno saputo immunizzare. Quei dispositivi di sorveglianza, arginamento ed espulsione rimangono necessari, perché funzionano da schermo e specchio per  riflettere la nostra rassicurante miopia, ripetendo l’infantile espediente di coprirsi gli occhi per non scorgere il male (nostro, e non esterno), che risulta parallelo alla volontà di sviare lo sguardo dal futuro che si avverte sempre più distante da un possibile reale controllo, pur nella delega ai sistemi di una democrazia liberale, travolta dallo straripare del populismo tecnocratico e televisivo, simmetrico a una razionalità finanziaria che eguaglia 1 e 99%.

Tanto più appare rilevante il ruolo di strumenti che consentono una riflessione elementare ma coesiva, fondata su logiche dialettiche e dialogiche, come la scrittura, o la sua metaforizzazione arcaica nella penna, che mai direttamente ha abbattuto muri e fortificazioni, ma sempre ha mostrato capacità di rovesciare l’imperante narrazione, e il suo materializzarsi in cortine incombenti, in atti di contrapposizione noi/loro. Sempre è riuscita a creare interstizi, aprire pertugi attraverso i quali creare focalizzazione migliore, naturale sostituto al sistema artificiale della scienza ottica, che tra cannocchiale e microscopio (nel sogno del panottico) ha offerto fondamenti tecnici indispensabili alla conquista coloniale, giocando sul potere distanziale dello sguardo attraverso dispositivi atti ad ostacolare scambio e meticciato, che costituiscono i tratti comuni di tutte le culture al loro culmine espansivo.

Programmando il presente Laboratorio, neppure il più smaliziato osservatore delle vicende internazionali poteva sospettare di trovarsi a fronte di una mutazione epocale rispetto a segnali certo attivi e percepibili, ma tramutati in valanga, che ingigantisce improvvisamente e travalica ogni immaginabile fantasia: il tema delle traversate e delle fortificazioni, precorreva e involontariamente preannunciava il precipitare della crisi siriana, la concomitanza del impasse libica, lo stupefacente cambio delle rotte, che avviavano lungo i percorsi accidentati dei Balcani frotte artificiosamente discriminate di rifugiati e migranti, il dilagare reattivo di meccanismi di ristatalizzazione confinaria, in barba a complesse elucubrazioni sulla scomparsa degli organismi nazionali di fronte alla trionfante globalità. Sono state irrise dotte teorie politologiche da una elementare forza  umana, realizzando traiettorie di ampiezza inconcepibile per un mondo assuefatto al trasbordo meccanico e ai percorsi istantanei nella realtà virtuale, proponendo come in tutte le altre grandi cesure secolari la forza realmente rivoluzionaria del camminare da parte di carovane dolenti di esseri poveri, scalzi, affamati, a mani nude, che con la sola mobilità dei propri corpi carichi di dolore impongo una svolta drammatica alla storia di un intero continente, ridisegnando l’agenda politica di un ceto governativo fuori scala rispetto alle necessità.

Vengono dopo duemila anni orde dall’Est, disarmate a ridicolizzare le nostre armi, che al più servono a realizzare il nostro suicidio, nella volontà disperata di conservare un impero in estinzione, nella sua rigida vecchiaia, che è biologica, ma pure ha urgenza di rinnovamento, anche di idee da rendere disponibili alla plasticità del futuro, attraverso la quale sono nati i grandi transiti di civiltà.

E come in ogni tornante della storia umana, ecco balzare in evidenza il protagonista involontario e imprevisto, eroe sacrificale che addensa nella propria fragile parabola il peso grandioso di migliaia di altre esperienze: il corpicino abbandonato e silente di Aylan Kurdi, colto da una fotografia storica in quella immobilità assoluta dell’abbandono mortale di «molesto e gelido orrore» («il manifesto», 3 settembre 2015), e capace tuttavia di raffigurare la tensione sconfinata al movimento, alla ricerca di salvezza, all’approdo su spiagge sicure, all’accoglienza, che è rivendicazione legittima, doverosa e inarrestabile di qualsiasi essere vivente. Una immagine ferma, statica, rigida e spenta, in realtà capace di scatenare un vortice di tensioni grazie alla incisività penetrante del messaggio visuale, che esaspera e traduce una realtà dispiegata e urlata, sconvolgente, imperiosa nella sua forza di mito orientante. E tuttavia quel documento esplosivo ha trovato la sua interna e contraddittoria smitizzazione, proprio divenendo una vicenda troppe volte rilanciata dalla ripetitività appiattente della cronaca, che ha reso possibile riassorbire in un battere di ciglia quello sconvolgimento planetario, quell’ondata emozionale all’apparenza decisiva, attraverso il sacrificio in brevissimo tempo di altri 450 Aylan inghiottiti dal mare nostro. Ma come sempre, i numeri sono arbitrari, all’ingrosso e insignificanti; ingigantiti capovolgono il senso apparente di comunicare un dramma, e invece lo spengono nell’imporre un’inconscia assuefazione a una tragedia che può crescere all’infinito, senza più forza trascinante.

Troppi Aylan insomma, o ignobili pantomime sull’accoglienza di giovani smarriti, per orientarsi in un dibattito efficace, in un discorso che deve ricostruire su altri canali un senso, andando a selezionare da quella cronaca che sconfina in un immenso obituario, i tratti riconoscibili di figure protagoniste di writing back, di narrazioni che caricano singoli personaggi, scene ed episodi di un valore ancora pieno, attraverso il corredo finzionale e le strategie retoriche dello storytelling, attraverso le quali la letteratura scavalca e precorre altri territori di analisi, riflessione e decisione, proiettando nel «singolare frequente» (Gabriella Turnaturi, Immaginazione sociologica e immaginazione letteraria, Laterza, 2003) la propria forza inesausta di rifrazione densa e significante del reale, altrimenti impossibile da abbracciare nel complesso dei numeri e delle ripetizioni massificate.

 

Sorprendente nei racconti scaturiti dalla intensa avventura del nostro Laboratorio, la scelta matura nell’individuare, pur rispettando l’intento della restituzione narrativa del dato oggettivo, episodi e situazioni di larga articolazione inventiva, mai appiattiti sulla drammatica intensità del fatto di cronaca da cui dipartono, mal collocabili in un breve giro di pagine. Essi perseguono una propria misura diegetica che esprime del reale i tratti essenziali, generali e riconoscibili, e tuttavia capaci di coinvolgere attraverso una scelta non di piatta riproduzione referenziale, ma animata nel gioco di figure, tensioni, scioglimenti o sospensioni, che inseriscono elementi di riflessione partecipativa, mai avulsa dalla capacità di leggere e interrogare il dato oggettivo, con un gioco di focalizzazioni variate attraverso le risorse della tradizione narrativa, che si conferma risorsa culturale ancora ricca di futuro, in grado di commisurarsi alle coordinate del pensiero corrente, interrogandone le scansioni temporali.

Rimangono certo riconoscibili gli spunti dal vero, i dati evenemenziali che la creazione letteraria riscatta in sequenze che danno coerenza a frammenti di esistenze, ricomposte in varie direzioni organizzative, sfruttando varietà di toni e di generi, dal giallistico al grottesco, dall’autobiografico al racconto corale. L’articolata scelta di modalità espressive, ribadisce la pluralità degli esiti di una procedura compositiva che il Laboratorio suggerisce, convogliando i vari profili dei partecipanti sotto il lato delle esperienze, delle emozioni, delle capacità e dei valori, e non ultimo anche delle culture di ascendenza, stimolate ad emergere in un confronto elaborativo né semplice né breve, ma tanto più arricchente quanto più riesce a far interagire ottiche e mentalità che partono da lontano, e cercano un linguaggio e una voce comune. Si tratta di un procedimento che implica tempi lunghi di apprendimento, di riflessione, di proposta, di stesure e revisioni, realizzando un’apprezzabile amalgama lungo le tappe chiave che costruiscono un percorso plurimo e partecipativo.

Tuttavia è riconoscibile un elemento di convergenza di tutte le narrazioni nell’esperienza complessa del viaggio, che sta subendo una trasformazione materiale e concettuale, mettendo in discussione quell’insieme di elementi che disegnano La mente del viaggiatore (Eric J. Leed, il Mulino, 1992 ), connesse a spinte intellettuali e risorse tecniche che hanno sorretto la logica dei movimenti umani per oltre mezzo millennio, consentendo una apparente omogeneizzazione della civiltà come esito della istanza espansiva e delle necessità di affermare presenze di potere e baluardi di sfruttamento da parte degli occidentali ad ogni angolo del mondo. Ma il continuo processo di destabilizzazione e soppressione delle culture e delle civiltà di margine, ha finito per sradicare intere comunità, forzandole ad imboccare traiettorie di  mobilità che puntano al cuore dell’impero, seguendo una elementare situazione fisica per cui non si danno i vuoti, e i dislivelli di società proclamate liquide (Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, 2008) provocano processi di compensazione equilibrante, tanto più accelerati, quanto meno efficaci sono gli interventi nella dimensione periferica. E la situazione risulta ancor più beffarda se la considera come conseguenza del crollo del muro per eccellenza berlinese, in un gioioso tourning point che qualche bello spirito profetizzò come fine della storia. E che può effettivamente esserlo, solo in quanto i fatti quotidiani rappresentano la fine di una storia univoca e prevaricante dell’Occidente, come appunto ci svela la fine dei viaggi di dominio nostrani, ai quali si sono sostituite quelle lunghissime rotte inverse di pratica collettiva, che partono dal luogo per eccellenza frutto della tendenziosa costruzione dell’Orientalismo (Edward W. Said, Feltrinelli, 1999), il deserto, vuoi africano vuoi mediorientale.

Proprio da un orizzonte immancabile di quel mito occidentalista, dal cuore del Mali, parte la sequenza dei racconti (Suoni dal deserto) per avvicinare quello spazio e quella umanità che lo popola non attraverso una contemplazione distaccata, ma raffigurandone la fragile esposizione agli effetti incrociati di dominio postcoloniale e di ribellione integralista, che minacciano la definitiva sconfitta e il silenziamento di un popolo, che trova invece nella reattiva disponibilità di giovani come Ibrahim e Hassan la capacità di misurarsi con una tenace resistenza. Essa non guarda nostalgicamente ad un passato di sofferenze tremende anche familiari, piuttosto alla costruzione di una comunità fraterna in grado di sostenere un viaggio verso l’Europa che non è azzardo di povertà destinata a sconfitta, quando si parte con lo scrigno di sapienze e competenze di una tradizione capace di superare barriere e ostilità, attivando la risonanza intelligente del proprio patrimonio nella dialettica globale di una scelta che afferma la libertà oppositiva di parola e canto: «Erano musicisti, o almeno lo sarebbero diventati di lì a breve, perciò avrebbero lottato con i mezzi a loro favore, musica e parole». Nello spazio alternativo della world music si può azzardare la sfida di una trasformazione, che non è affatto rinuncia, se conserva una fonte ben precisa di riferimento in quel deserto (da ciò il nome Tinariwen) che rovescia completamente lo stereotipo di vuota nullità primitiva, e si rivela fonte di cultura, saggezza ed apertura anche valicando temuti confini.

Per quanto possano apparire distanti ed estranei i due mondi, una serie di circostanze e situazioni li connettono, affiorando esperienze e tragedie similari, come la morte per naufragio, che attivando un sistema di sentimenti compatibili e solidali nella gente comune coinvolta in quelle esperienze, stimola la vicinanza spontanea che Pier Paolo Pasolini prediceva nel 1960 (Profezia), immaginando un intreccio di sensibilità radicate nell’abitudine migratoria fra gente africana e delle Calabrie «da briganti a briganti». Il naufragio del 1975 a Schiavonea (Salvati), in dispregio di ogni misura di sicurezza per i marittimi, precorre la scomparsa di un «barcone carico di persone proveniente dall’Eritrea Un barcone, nessun nome, nemmeno il santo che lo protegge». Scatta in Salvatore, orfano per l’antico disastro, la spinta ad un generoso intervento di protezione verso uno di questi sopravvissuti, strappando così l’eritreo non solo alla precarietà del quotidiano, ma specialmente tributandogli la riconoscibile individualità di persona e soggetto affettivamente e socialmente attivo che lo distingue dalla massa anonima dei profughi, ai quali invece lo condanna il percorso della burocrazia, riducendo a semplice modulistica burocratica una storia di enorme sofferenza che s’allarga a tutto un popolo. Oltre l’illegalità del gesto soccorrevole, e la necessità al fine di arrendersi ad una legge estranea e anonima, rimane tra i due uomini il vincolo non più cancellabile di un riconoscimento di dignità e di una riconoscenza fra due identità che si rispecchiano in un paritario compatimento.

Tale consonanza diviene reciproca compenetrazione nella originalissima avventura di Milite (Ig)nota,[2] che si confronta addirittura con uno dei punti cardinali dell’italianità del Novecento costruito attorno alla monumentalità pacchiana e ingombrante del mito del milite ignoto, e la cui funzione si esaurisce attraverso una inaspettata contronarrrazione. Il rovesciamento ci richiama alla attualità di un dolore universale filtrato dalla spinta solidaristica, capace di costruire le basi emozionali e i contorni di una comunità sovranazionale, ridefinita attorno a presenze rifiutate e relegate nell’indifferenza della morte, che rappresentano tuttavia revenants fantasmatici impossibili da placare se non con il sacrificio e il rito purificatore di una società intera. Per una serie di coincidenze, l’unica africana a Gradisca d’Isonzo, viene coinvolta in una cerimonia ufficiale per la sepoltura del figlio Abraham, fuggito dall’Eritrea e naufragato nel Mediterraneo, mentre scopre il precedente storico di Maria Bergamas, chiamata anch’essa all’altare della patria per scegliere nel 1921 il soldato innominato, figura dell’immensa carneficina bellica del primo conflitto mondiale. Durante il viaggio verso Roma, Milite/Maria (così il significato del nome in tigrino), legge le amare riflessioni di chi l’ha preceduta, implicata suo malgrado in formalismi e convenzioni, incapaci di restituire il senso della maternità nel contesto catastrofico che il suo gesto suggella e ratifica. Nasce così una volontà di contrasto che il gioco delle simulazioni non frena,[3] motivando la richiesta dirompente in «un labirintico gioco di maschere» di nutrire di sostanza profonda e reale la cerimonia, rivendicando nell’incontro col corpo del figlio l’adozione di una politica del lutto nei confronti delle tragedie migratorie, che nella scena pubblica italiana è ben lungi dall’essere elaborata (Daniele Salerno, Stragi del mare e politiche del lutto sul confine mediterraneo, in Il colore della nazione, a cura di Gaia Giuliani, Le Monnier, 2015, pp.123-139). Pur enormemente traumatizzata, e con un azzardo che solo lo slancio materno può dettare, Milite si trova a realizzare un vero progetto di contro-storia: «nel corso del viaggio, un’altra responsabilità si era imposta alla sua mente: riscattare Maria Bergamas, concederle una tardiva rivincita, evitando di soccombere a quei meccanismi che l’avevano sconfitta, tanti anni prima. Aveva fallito». La scelta impegna perciò noi stessi a sviluppare e mantenere quelle intenzioni, consegnandoci l’intrico della doppia storia attraverso il gesto di abbandonare il diario dell’altra madre sul treno, con la foto del figlio, un bookcrossing rivolto a chi vorrà raccogliere la sfida di affermare verità altrimenti non dicibili nel gioco di convenzioni ufficiali.

Il richiamo alla scrittura è sostituito nel racconto Il cammino del profugo con la messa in discussione di un caposaldo della nostra superiorità, la tecnologia che consente la conquista della nuova dimensione dello spazio immateriale, a discapito di scorribande e prevaricazioni nell’orizzonte materiale del territorio, sempre più rugoso e fonte d’attrito per l’avanzata cieca e sorda dell’egoismo mercantile, costretto a uno statico infittirsi di barriere in direzione centripeta. La forza delle nuove invenzioni, resa disponibile anche in una quotidianità altra, serve allora per abbozzare proprio quelle tracce e quei percorsi emergenziali, senza riuscire però a farsi strumento di reale solidarietà socializzante, che rimane affidata allo slancio generoso, diretto e non riflessivo. Se nella fuga dalle devastazioni nel deserto siriano «Per Tahir era stato facile trovare la via giusta: aveva semplicemente cercato sullo smartphone l’itinerario per la Turchia, adoperando il GPS», riuscendo a raggiungere fra tribolazioni e deviazioni alfine l’Ungheria, non altrettanto fortunato il percorso della sorella Afrah, dispersa sui barconi nel Mediterraneo, riuscendo solo a testimoniare la sua scomparsa attraverso l’incerto funzionamento del cellulare. L’oggetto che riempie straripante la percezione del mondo di qualsiasi occidentale, sprofondato in una comoda e alienante routine, e che pare renderlo immune dal trauma del reale: «È ora di pranzo: bisogna nutrirsi di buon cibo e buone disgrazie, per illudersi sempre che la realtà non cambia come non cambia il pane che si sta per mangiare, che bene o male ha sempre lo stesso sapore». Finché non scatta nel giovane italiano (senza nome e alla ricerca di una propria dignità) il rifiuto del vuoto di sensazioni e di affetti, da cui si genera la spinta a incontrare proprio quei profughi, a sua volta costretto a subire la forza di ordini illogici, che innalzano muri di diffidenza e spietatezza: «Due poliziotti si sono avvicinati, si frappongono fra il ragazzo e Tahir: “Non vogliamo problemi in questa stazione!”. I due abbaiano ordini all’arabo, lo rigettano indietro, lo riaccompagnano dal suo gruppo. Nella folla Tahir perde il contatto visivo con il ragazzo. Spera di non dimenticarlo. Spera di non essere dimenticato».

Si tratta di generosità sofferta, conquistata a scavalcare mille ostacoli che la sordità delle abitudini, i piccoli orizzonti del vivere quotidiano impongono, come nel racconto Tutta colpa della Regina che focalizza uno dei più incresciosi episodi, se pur all’apparenza puntiforme, che segnala la costruzione del labirinto inestricabile di barriere, in spregio a qualsiasi fondamento che dovrebbe regolare il vivere da cittadini liberi eguali e fraterni. Il blocco di un pugno di migranti a Ventimiglia, contro ogni logica e legge, ci riporta ad un’idea di Europa parcellizzata e in frammenti, impegnandoci tuttavia in una sfida che non è affatto noi vs loro, bensì solo si può risolvere con una tacita e pudica solidarietà.  I problemi di accoglienza e respingimento fanno irruzione nella più assoluta normalità: «Il signor Giovanni Penati, amministratore condominiale, vive al secondo piano di una palazzina in buono stato sita di fronte allo snodo ferroviario di Ventimiglia», esasperando in lui il nevrotico rispetto dell’ordine geometrico, che può riguardare sia gli amati scacchi: «oggi qualcosa non va. Una piccola opacità attira la sua attenzione. La regina con la sua corona non risplende quasi di luce propria così come ogni giorno», sia la realtà cittadina: «Vede una lunga fila di uomini, donne e bambini, alcuni scalzi, procedere sull’asfalto arroventato dal sole estivo. Scortati dalla polizia e accolti dai volontari della Croce Rossa, intenti ad allestire un campo». Tra quelli Iskander, uno dei tantissimi profughi transitati, dopo lo sbarco fortunato, per centri detentivi e luoghi di fortuna, risalendo la penisola lungo un Cammino della speranza (Pietro Germi, 1950), che in realtà sembra riportarlo all’indietro, essendo ormai l’intero bacino attorno al Mediterraneo sinistramente unito da campi di orrore, a partire proprio dalla Libia, territorio di sperimentazione ad avvio del secolo passato delle macchine di sterminio ideate da Graziani per il colonialismo italiano (e forse oggi di nuove avventure destabilizzanti). Ai fuggiaschi il mondo appare come una scacchiera, frammentato da una pretesa razionalità aberrante, che ad arbitrio indica percorsi interdetti, mosse sbagliate, esercitando gerarchie di potere, anche a livello minimale di perbenismo borghese; così che una riunione del condominio all’apparenza assediato dalla minaccia degli stranieri, si fa metafora di un consiglio di guerra, della nazione in armi pronta alle battaglie del respingimento. Il casuale percorso del cane Mafalda, mette in contatto i due personaggi, che nella sfida degli scacchi sapranno riconoscere una convergenza di linguaggio e di sentimenti, consentendo anche l’atto di ribellione che procura l’espatrio in Francia dell’eritreo.

Dal piano simbolico, il confronto si trasferisce in un’atmosfera di durezza fisica, con la storia caricaturale Buio/Controbuio, che richiama gli avvenimenti conseguenti il «trasferimento dei profughi a Casale San Nicola» nella periferia romana. La scelta di una contrapposizione violenta assume toni parossistici e grotteschi, sfuggendo poi di mano agli astuti strateghi dell’oltranzismo, quando le tensioni razziali, la azioni di violenza reciproca disgregano ogni possibile senso di comunità conviviale, con l’azione collocata nello spazio anonimo (uno dei Nonluoghi direbbe Marc Augé, Eleuthera, 1993) di un bar. L’esasperazione accesa dal gestore Giorgio, consente l’inaspettata liberazione del grumo di frustrazione di Italo (evidente omen-nomen) tipo strano e marginale, che trasformandosi in eroe notturno si accolla di materializzare l’ostilità nazionale diffusa contro i “negri”: «Si sorprese per non averci mai pensato prima: avrebbe agito nell’ombra per liberare la città. Era così semplice. Vigilare. Tirò fuori una vecchia calzamaglia scura e si affrettò a fargli due buchi per gli occhi e cucirgli sopra una delle toppe con la bandiera dell’Italia». La reazione alle imprese del vendicatore, suscita la simmetrica aggressività dei giovani immigrati di borgata, essi stessi umiliati nella doppia marginalità di sottoproletariato etnico, spingendoli ad azioni che trasferiscono il narrare dai toni caricaturali alla tensione giallo, con imprese incrociate, che culminano in una tragedia sanguinosa che sfugge ad ogni controllo, quando si imbocchi la scelta della contrapposizione violenta italiani e no.

Se può risultare complesso lo sforzo delle nuove generazioni, ciò deriva anche dalla percezione di una situazione di instabilità e contraddizioni da parte delle figure adulte, direttamente implicate nel traumatico dislocamento costituito dalla scelta migratoria, che muta in ostacoli gli elementi di una nuova e difficile socialità, rendendoli sospettosi verso rapidi processi di assimilazione. Manca loro quella disposizione colloquiale che nell’episodio Ad ogni costo assume la veste della necessaria e piena integrazione linguistica, che si affida al percorso didattico, con al centro la forza espressiva della parola, lo studio e l’impegno caparbio premessa a una certezza professionale riconosciuta. Affiora il più consueto taglio narrativo autobiografico, per esprimere una focalizzazione intensa e soggettiva di una giovane del Bangladesh che raggiunge con la famiglia il padre a Palermo, rifiutando però di seguirlo nel trasferimento a Roma, pena l’interruzione del corso di studi e della sfida per ottenere una borsa universitaria. Fra ostilità paterna, e complicità della madre e della zia, il senso di una nuova italianità si realizza attraverso l’autonomia e l’intraprendenza della ragazza, oltre gli stereotipi di una obbligata sottomissione femminile alle tradizioni della cultura di provenienza, individuando nell’insegnamento dell’italiano il canale privilegiato per l’integrazione, nel quale in chiave di metaracconto si proiettano le figure stesse delle sue autrici.

Non sempre facile e felice può risultare la parabola di accettazione dello straniero, oltre teoriche intenzioni e volontà, anche quando incrocino disponibilità di interlocutori giovani o maturi, perché sempre continua a pesare, e a fungere da agency negativa, lo stereotipo della diversità, e la sua automatica associazione alla condizione di marginalità, una atavica colpevolezza carica di tratti virali e perturbanti, che si insinuano anche nelle situazioni in cui paiono aprirsi porte domestiche e spazi di intimità. È quanto accade in Il figlio del Haram, dove la figura comprensiva, aperta e illuminata di Evaristo si frantuma in contraddizioni quando entra in gioco direttamente la sua quotidianità. La convivenza della figlia Lucia in piena crisi adolescenziale con Skander, gli ambigui rapporti del figlio Gabriele con le droghe, nel cui mercato ha dovuto immischiarsi il tunisino clandestino «figlio del Haram», finiscono per mettere in crisi le certezze e le aperture, che passano anche per l’impegno nella scuola di italiano per profughi. Pregiudizi e circostanze che dominano una Bologna ritratta con modi intensi e realistici, finiscono per metterlo in urto con il sistema criminale gestito dai boss maghrebini, e l’unica soluzione per il recupero dell’equilibrio non potrà che essere il sacrificio dell’innocente, l’autodenuncia e perciò stesso l’espulsione del giovane straniero, nonostante abbia svelato tratti di portatore di salvezza, agendo quale elemento di speranza anche per i ragazzi italiani alla ricerca di una loro certezza di vita, e tuttavia ratificando l’impossibilità di apertura verso l’altro: «Il suo è un mondo ignoto, per me. Solo se conosco posso decidere di accettarlo o meno».

Il controcanto, all’apparenza grottesco e caricaturale, rispetto al mondo della illegalità e delle droghe, è affidato in Un perfetto sconosciuto, alla realtà ambigua del calcio, spazio di facili illusioni per un percorso di integrazione asservito a uno dei miti più potenti dell’Occidente. Esso subordina e deumanizza, s’accontenta del piede, dopo le braccia degli schiavi, e non dell’intera personalità; in ciò aggiornando la storia di sfruttamento delle risorse coloniali, ma rappresenta un sogno per figure modeste, spinte da istanze di sopravvivenza, disposte addirittura al sacrificio della propria identità pur di scavalcare gli ostacoli. Da ciò il turbine di equivoci, di sdoppiamenti, di sostituzioni, di fratelli inconsapevoli e nemici, che non a caso nutrono tanta letteratura postcoloniale, e qui originano una decostruzione metaforica della pretesa massificazione anonima di un alieno che non riusciamo a individuare, considerandoli come fa la compiacente e stressata avvocatessa Faccioli: «Nomi strani, facce e storie troppo simili»; perciò «Allacciandosi le stringhe, Sara notò di aver indossato due calze dello stesso colore, ma di due paia diverse: alcuni neri sono indubbiamente più uguali di altri, e non è difficile scambiarli di posto». Ne risulta non solo ribadita la chiusura verso l’altro, ma persino impedita una fraternità interetnica, e addirittura familiare, intorbidata da incomprensioni ed equivoci, carte e scritture che non sono affatto quelle animate da tensione collaborativa, come vorrebbe alimentare il nostro Laboratorio, ma piuttosto ratifica di una forza imperiosa di individuazione, distinzione, classificazione, diversificazione, ossequiente a strategie di controllo sottostanti la drammatica fase in cui si manifesta in modi oscuri un cambio di passo epocale che apre una voragine di crisi nella nostra civiltà.

«Abitanti di un mondo in declino, trepidiamo soltanto per la nostra ricchezza, proprio come i popoli vecchi, le civiltà al tramonto. E non ci accorgiamo che nelle nostre tiepide città, in cui coltiviamo la nostra artificiale solitudine, vi sono già alveari ronzanti, di rumore e di colore, di preghiera e furore. Il mondo di domani». (Domenico Quirico, Esodo. Storia del nuovo millennio, Neri Pozza, 2016).

*professore di Sociologia della Letteratura

Università di Bologna

[1] Si fa riferimento alla prima pagina «splendida e terribile» de «il manifesto» del 3 settembre 2015, premiata di recente come la migliore dell’intero anno.

[2] L’argomento è stato proposto da Muna Mussie, con riferimento alla figura della nonna, che lo ha poi sviluppato nella performance teatrale Milite Ignoto, andata in scena a Bologna il 3 marzo 2016.

[3] Interessante la marcatura dello straniero come incompetente e subordinato anche sul piano linguistico, che è motivo ricorrente nei testi della migrazione: «Sul podio Milite aveva trovato un foglio con le parole che doveva pronunciare. Aveva seguito il consiglio di Morini e, recitando, aveva addirittura finto di non conoscere l’italiano, parlando lentamente, deformando le parole e sbagliando le desinenze: non le importava. Morini si aspettava da lei che tenesse un’espressione triste, sconsolata, che facesse pause dolorose, sospirasse, piangesse, e lei lo aveva fatto».