Un perfetto sconosciuto – Simone Carati, Giulia Franchini, Francesca Fughelli, Cinzia Perini
Alba Adriatica, 2 giugno 2015
L’unico effetto personale sopravvissuto al viaggio e all’azione corrosiva dell’acqua era un piccolo pezzo di carta, su cui Issiakà N’ Diaye, come l’aveva chiamato la madre, aveva scritto il nome e il cognome di un uomo e il nome di una località. Tre parole soltanto, ma che, come una formula magica, ripetute senza sosta, lo avevano guidato e accompagnato lungo il cammino, finché, durante il naufragio a Lampedusa, il loro misterioso potere era del tutto svanito.
Sdraiato sul materasso che gli avevano assegnato all’arrivo nel centro di accoglienza di Alba Adriatica, il ragazzo ripensava alla sua casa, alla madre Selima, morta all’improvviso un anno prima, e alla lettera che aveva sconvolto la sua vita. Suo padre, baay Diatta aveva scritto dall’Italia. In poche righe aveva spiegato di essere malato e gli aveva chiesto di raggiungerlo in Abruzzo, per poter vedere l’uomo che era diventato e parlargli di una cosa molto importante. Issiakà aveva segnato su un foglietto l’indirizzo indicato nella lettera, aveva raccolto le sue poche cose e aveva lasciato Tambacounda, per andare alla ricerca dell’unico parente che gli era rimasto e di cui, paradossalmente, sapeva poco o nulla.
Lui stesso, del resto, in Italia, senza un documento di riconoscimento, perduto lungo il tragitto, senza soldi, finiti durante le settimane di viaggio, senza nessun riferimento, era un emerito Signor Nessuno. Niente assomigliava a ciò che aveva immaginato.
I primi tempi erano trascorsi tranquilli. Al centro di accoglienza gli avevano preso le impronte digitali, dato vitto e alloggio e concesso un piccolo supporto economico mensile, in attesa della prima convocazione per regolarizzare la sua posizione. Da allora, era passato molto tempo. Impossibile ottenere il permesso di soggiorno in tempi ragionevoli. Impossibile trovare un lavoro senza il permesso di soggiorno. Impossibile ricominciare una vita normale senza un lavoro. La noia e lo sconforto avevano preso il sopravvento. Per imparare la lingua, aveva frequentato un corso di alfabetizzazione, e nel giro di qualche mese aveva raggiunto un buon livello di conoscenza della lingua italiana e perfino collaborato come mediatore culturale per i nuovi arrivati. Nel frattempo aveva cominciato a cercare baay Diatta, irreperibile all’indirizzo comunicato. Per passare il tempo si era iscritto al “Girone Abruzzo della Coppa d’Africa”, il torneo estivo di calcetto organizzato dal signor Alioune Mbaye Luna, che da anni prestava il suo tempo e il suo buonumore come volontario presso il centro di accoglienza.
Partito dalla Petite-Côte, il signor Luna era arrivato in Italia vent’anni prima. Si era sposato con una connazionale, Boahinmaa, detta Buonanima, dalla quale aveva avuto un solo figlio maschio, battezzato Papisse Aliou Cissè in onore di due stelle del calcio senegalese. Il calcio era la sua grande passione; il torneo “Girone Abruzzo della Coppa d’Africa”, giunto alla settima edizione, il suo vanto. Quell’anno risultavano iscritte ben dieci compagini. La parte più complicata era stata la stesura del tabellone. Gli era venuto in aiuto il figlio, negato per il calcio ma mago del computer. Partita di apertura, Gambia – Nigeria. Durante la terza serata, un match chiave: Mali – Senegal, come dire Germania – Italia o Francia – Inghilterra, tanto per rendere l’idea. Il torneo sarebbe durato due settimane. La squadra vincente avrebbe affrontato, in settembre, la prima classificata di un torneo simile, in corso di svolgimento ad Aidone.
Alba Adriatica, 9 giugno 2015
La partita Mali – Senegal non tradì le aspettative del signor Luna. La squadra del suo paese di origine si era imposta 3 a 0 sui cugini del Mali e il gioco espresso dai connazionali lo fece ben sperare. Una maglia del Senegal era andata a un certo Issiakà N’ Diaye, che aveva giocato piuttosto bene. Luna lo aveva notato più per la sua fisionomia che per il palleggio: un volto noto, che gli ricordava qualcuno che aveva già conosciuto, ma chi? Come ricordarsi di tutti coloro che erano passati dal campo di accoglienza? A fine partita lo avvicinò, lo trovò simpatico e decise di invitarlo alla festa della comunità senegalese, a cui sarebbero andati tutti i ragazzi che avevano partecipato al torneo, e anche qualcun altro, che a calcio sapeva giocare sul serio.
Issiakà accolse volentieri la proposta e, dopo aver salutato Luna, rimase al campo ancora un po’. Scoprì che molti di coloro che erano accorsi al campo per l’evento erano senegalesi: qualcuno forse conosceva baay Diatta? Domandò a diverse persone e solo un uomo sulla quarantina seppe dargli delle indicazioni: c’era, sì, un tipo di Tambacounda, l’aveva conosciuto un mese prima, era molto malato. Non ricordava il nome, però l’aveva incontrato nei pressi di via Ponticcioli, magari abitava lì, come molti altri africani.
Alba Adriatica, 10 giugno 2015
La mattina seguente, Issiakà percorse le vie di Alba con il cuore a mille. Girò in lungo e in largo, si fermò a chiedere informazioni ai passanti, ma nessuno sembrava conoscere la via che cercava. Eppure ci doveva essere. Da lontano vide un coetaneo africano uscire da un vecchio palazzo e pensò di poter ottenere qualche indicazione. Lo rincorse, ma non fece in tempo a fermarlo. Prima che potesse raggiungerlo, il giovane era salito su un autobus.
Tornò al palazzo e diede un’occhiata ai campanelli, sforzandosi di decifrare i cognomi scritti nelle etichette. C’erano solo nomi italiani, ma tanto valeva provare. Scelse il campanello di un tal Alfonso Cola e suonò. Dopo alcuni secondi, si aprì una finestra al primo piano e un uomo sui sessanta, brizzolato e con la pelle abbronzata, si affacciò.
«Che c’è?» domandò ad Issiakà. «Qui suona solo il postino».
Issiakà non si lasciò intimorire dal tono scorbutico dell’uomo: «Buongiorno, mi chiamo Issiakà. Scusi il disturbo. Sto cercando una persona che dovrebbe abitare qui. Il signor Diatta».
L’uomo si sporse e lo osservò con attenzione: «Diatta? Il ragazzo che fa il calciatore? Alto, snello, pelle nera? Ti assomiglia anche, adesso che ti guardo meglio!»
Issiakà lo guardò a sua volta, perplesso: «Veramente io sto cercando un uomo anziano, non un ragazzo. Non so di preciso quanti anni ha. E a dire il vero non so nemmeno che faccia abbia. Ma abita qui, me l’hanno dato per certo».
Cola si rabbuiò: «Ragazzo, qui di Diatta ne abitavano due, padre e figlio. Il vecchio però è morto. È stato sfortunato. Se fosse riuscito a tirare avanti ancora un po’ con lo stipendio del figlio si sarebbe potuto permettere cure migliori, parola mia!»
Issiakà rimase di ghiaccio. Si sentì svenire. Baay Diatta non c’era più. Suo padre non c’era più. Non avrebbe mai saputo quale fosse la cosa importante di cui voleva parlargli. Pensò a Selima e a quante cose avrebbe voluto chiederle.
Cola parlò di nuovo, riportandolo alla realtà: «Ehi, ragazzo, ma mica lo conoscevi, vero? Se era un tuo amico, mi dispiace di avertelo detto così. Comunque, neanche l’altro Diatta, Mamadou, è in casa. Sarà andato all’allenamento. Fa bene a darci dentro, finché è giovane. Se riesce ad arrivare alla serie A, svolta! Auto di lusso, contratti milionari, pubblicità, ragazze… I calciatori sono una calamita per le ragazze! Per ora ha un contratto col Chieti, ma a quanto si dice in giro, ha stoffa da vendere, anche se pare che abbia qualche problema con il permesso di soggiorno. Ora scusami, ma devo salutarti. Ho la pentola sul fuoco».
Issiakà era stordito. L’immagine del giovane che aveva preso l’autobus poco prima gli si affacciò alla mente. Perché quel ragazzo si chiamava Diatta? Perché viveva con suo padre?
Quella sera, sebbene provato, si recò alla festa della comunità senegalese. Ci sarebbe stato anche Mamadou? A momenti ci sperava, a momenti no. Arrivato al locale, entrò e si sedette all’estremità di un lungo tavolo di legno, in disparte rispetto alla folla di persone che si addensavano al centro della sala. Si guardò intorno, chiedendosi quante probabilità avesse di imbattersi nel Diatta calciatore. Diede un’occhiata alla folla nella speranza di riconoscere il signor Luna, che lo aveva accolto calorosamente al suo arrivo, ma che era sparito quasi subito, inghiottito dalla calca festante. Si spazientì. Era ormai deciso ad avviarsi verso l’uscita quando scorse poco lontano la testa canuta del capo della comunità senegalese.
«Issiakà, ragazzo mio, questa festa è formidabile! E scommetto che non hai mai assaggiato akras come queste!» esclamò porgendogli un piatto carico di frittelle.
Issiakà ne prese una, incerto.
«Coraggio, non sarai mica diventato timido! Oppure vuoi star leggero per la partita?» fece Alioune con una strizzatina d’occhio.
Un’idea improvvisa attraversò la mente di Issiakà: «No, figurati, sono squisite, ma ho già mangiato troppo. Alioune, senti, mi chiedevo se per caso conosci un ragazzo senegalese che abita da queste parti, uno che fa il calciatore. Ne ho sentito parlare da un tipo, l’altro giorno. Mi piacerebbe conoscerlo».
«Ma certo, tu parli senz’altro di Mamadou Diatta! Lo conosco da tempo, è un mio amico sai? Dovrebbe arrivare a momenti! Tra l’altro mi ha promesso che giocherà al torneo: per noi è un grande onore. Guarda, questa è una sua foto» disse, estraendo qualcosa dalla tasca. «È una foto di squadra del Chieti alla fine della scorsa stagione. Lo riconosci, è l’unico giocatore nero! Ti assomiglia anche. Chissà che anche tu non abbia la stoffa, eh? Lo vedremo al torneo! Certo, non ti offendere, lui è un po’ più robusto, ma i muscoli si fanno con l’esercizio!»
La mente di Issiakà era ormai lontana dalla sala festante: «Alioune scusa, torno a casa, sono stanco. Domani voglio giocare bene».
Avviandosi verso l’uscita, con la coda dell’occhio percepì una figura sfuocata entrare dalla porta a fianco. Sentì che il ragazzo veniva salutato come «Mamadou!» e affrettò il passo.
Alba Adriatica, 11 giugno 2015
Rigirandosi nel letto, Issiakà continuava a pensare a tutto quello che gli aveva detto quello strambo uomo del condominio. Sentiva di aver perso ogni obiettivo e di essere rimasto nuovamente solo. O meglio, qualcuno c’era: un tizio che gli somigliava, aveva detto l’uomo abbronzato, un buon calciatore, una bella vita… uno che ce l’aveva fatta. Un perfetto sconosciuto, un altro Signor Nessuno che però aveva avuto tutte le possibilità che a lui erano mancate e che rappresentava ciò che lui avrebbe potuto essere se solo il destino, per una volta, avesse smesso di remargli contro. In fondo, non chiedeva molto: solo una vita normale, potersi svegliare la mattina e sentirsi a casa, sicuro, senza la paura di venire imbrogliato, sfruttato o cacciato dal paese da un giorno all’altro.
In mezzo al balenio dei pensieri, Issiakà cominciò a elaborare una stramba idea, che in altre condizioni avrebbe respinto all’istante, ma che in quel momento lo attraeva e gli appariva come l’unica strada possibile. D’altronde, non aveva più nulla da perdere.
L’indomani, prese una decisione. Quella mattina non l’avrebbe passata, come le precedenti, a cercare uno straccio di lavoro che non comportasse un evidente sfruttamento, ma sarebbe andato a trovare un uomo indicatogli da un ragazzo del centro, dal quale avrebbe potuto ottenere all’istante dei documenti.
Spese gran parte di ciò che aveva, ma quel giorno stesso ebbe tra le mani il suo documento, con una piccola variante nel nome. Non poteva aspettare. Senza il riconoscimento dell’asilo politico non poteva lavorare con contratto regolare e i tempi dell’iter burocratico erano troppo lunghi. Camminava in fretta, cercando di giustificare a se stesso il gesto che stava per fare.
Si ritrovò quasi meccanicamente fuori dallo studio di un avvocato che gli era stato indicato dal signor Luna.
Suonò, entrò e disse che aveva bisogno di aiuto per il rinnovo del permesso di soggiorno.
«Ah certo…sì, sì, d’accordo» replicò piattamente l’avvocato Faccioli. «Documenti, prego… Mamadou Diatta, sì, il signor Luna mi ha parlato di lei, la promessa del calcio locale» disse, inasprendosi, forse involontariamente, sulle ultime parole. «Guardi, in questo momento sono un po’ indaffarata. Siete tanti al centro e Alioune mi manda qualcuno di voi in continuazione. Lasci pure i documenti e un recapito telefonico sulla scrivania, la contatterò io a breve… Ma avendo già un ingaggio, se firma un contratto, non dovrebbe essere troppo difficile ottenere un permesso lavorativo. A domani, chiuda la porta quando esce, grazie».
Pescara, 12 giugno 2015
Di buon’ora Issiakà partì per Pescara. Si presentò al campo da calcio e chiese di fare un provino, mostrando, con un po’ di esitazione, i suoi nuovi documenti.
«Mamadou Lamine Diatta! Non mi è nuovo questo nome» esclamò il presidente della squadra, mentre il giovane si portava in mezzo al campo.
Accanto a lui, l’allenatore replicò prontamente: «Difficile non averlo sentito, sta su tutti i giornali sportivi locali in questi mesi! È una giovane promessa del Chieti, ottimo attaccante. Potrebbe essere davvero un buon acquisto per noi».
Il presidente sorrise soddisfatto, mentre in campo Issiakà sferrava un calcio deciso al pallone: un goal perfetto, stavolta!
Alba Adriatica, 12 giugno 2015
«Permesso? Ciao…» disse Mamadou entrando nello studio dell’avvocato Faccioli.
Sara avvicinò le sopracciglia in un’espressione di fastidio. «Buongiorno» replicò tagliente.
Detestava il modo in cui quei ragazzi si prendevano subito confidenza. Giovane, donna, ma pur sempre avvocato. “Che ciao o salve d’Egitto: buongiorno, si dice. Buongiorno, buonasera, la ringrazio; senza di me non andreste lontano. Quanti di voi ho già aiutato, da quando ho conosciuto Alioune? ‘Cerco qualcuno che si occupi di regolarizzare la permanenza dei ragazzi della comunità… A quanto ammontano le sue parcelle? Ah, un buon prezzo… Così giovane, certo… Bisogno di avviare lo studio… A risentirci…’ Quanti siete stati in quest’anno e mezzo, uno dietro l’altro come i prodotti imballati in fila sul rullo? Ho cominciato quasi subito a perdere il conto, chi si ricorda più? Nomi strani, facce e storie troppo simili. Quello che so è che grazie a questi neri che ci rubano il lavoro io mi guadagno il pane. Tra un turno e l’altro, certamente. E mi piace che mi si dica buongiorno, ecco, perché gli avvocati sono persone a cui si dice buongiorno, non ciao, eccheccazzo”.
«Prego, si accomodi e mi esponga il suo caso».
«Mi chiamo Mamadou Lamine Diatta» cominciò Mamadou, a disagio sotto il tiro degli occhi chiari dell’avvocato. Sul piano lucido della scrivania tutto era in ordine, eccezion fatta per una tazza di caffè mezza piena e di una rivista di moda mezza sfogliata. «Sono stato indirizzato qui dal signor Luna. Ci siamo sentiti per telefono martedì scorso, ricorda? Gioco nel Chieti, a calcio, intendo. Ho bisogno di rinnovare il permesso di soggiorno per poter iniziare il campionato. Quello attuale scade tra poco, e il presidente della squadra mi ha sollecitato. Ah, dimenticavo: ero già stato da te… da lei anni fa per regolarizzare la mia presenza in Italia».
«Diatta… Diatta… sì, in effetti credo di ricordami di lei». Il suo viso le ricordava qualcosa. Ma, del resto, i neri non sono tutti uguali? «Tra quanto tempo scade il suo attuale permesso?»
«Tre mesi circa… il 2 settembre, per la precisione».
«Allora siamo in tempo. Ecco l’elenco completo di tutta la documentazione da portare in Questura, controlli di avere tutto. Io farò una verifica del suo caso, ma dovrebbe essere tutto in ordine».
“Tutto in ordine, davvero?” Sara afferrò la tazza di caffè e la spostò nell’angolo a destra della scrivania.
«Se non ha altre domande da farmi la saluto, ci sentiamo nei prossimi giorni».
Tutto in ordine? Gli occhi chiari dell’avvocato Faccioli sondarono per un’ultima volta quelli di Mamadou: decisamente no, c’era qualcosa che non quadrava.
Una volta che il ragazzo fu uscito dallo studio, Sara rimase seduta sulla sua poltrona di pelle, a guardare fuori dalla finestra, in balia di un’inspiegabile sensazione di fastidio. Si alzò e si diresse verso il mini-frigo che sembrava chiamarla da un angolo della stanza. Come in cerca di una soluzione, lo aprì. Dallo sportello del freezer estrasse una lattina di Fanta. Fzzz. Due identiche gocce di condensa presero a rotolare lungo la superficie metallica. Correvano parallelamente.
Sara appoggiò la lattina, allungò le mani verso la lettera D del suo schedario, frugò un po’ e… eccolo lì, un altro fascicolo intitolato Mamadou Diatta. Beh, non c’era dubbio: i neri sono tutti uguali, ma, a quanto pare, alcuni sono più uguali di altri.
Pescara, 19 giugno 2015
«Dai ragazzi, forza! Ultimo esercizio e poi tutti a casa».
Issiakà era sul prato del campo da allenamento e cominciò a correre veloce, più veloce di tutti. La voce dell’allenatore arrivava a stento alle sue orecchie, ma nella sua testa risuonavano ancora le parole del presidente della società che gli confermava l’ingaggio. Ce l’aveva quasi fatta.
L’allenatore fischiò di nuovo radunando la squadra: «Ragazzi, per domani sera siamo stati invitati, come sempre, alla festa di chiusura del torneo organizzato dal signor Luna, che voi conoscete e che la società ha sempre sostenuto. Inutile dire che conto sulla presenza di tutti!»
Non appena sentì il nome del signor Luna, Issiakà ebbe un tremito; gli piaceva quel vecchio, ma tutte le volte che lo incontrava si sentiva analizzato dai suoi occhi profondi. Senza contare che, da quando aveva deciso di assumere la nuova identità di Mamadou, non era più tornato al centro e cercava di evitare tutte le persone che lo avevano conosciuto come Issiakà.
L’idea di prendere parte alla serata conclusiva del torneo lo faceva sudare freddo.
Alba Adriatica, 20 giugno 2015, ore 14.45
Mamadou giunse dall’avvocato con largo anticipo. Trovò la Faccioli nella stessa posizione della prima volta, gli occhiali sulla punta del naso e l’aria insonne.
«Signor Diatta, non le nascondo che il suo caso è alquanto singolare. Quando l’ho vista, ho provato una strana sensazione di – come potrei dire? – déjà vu, ecco, che sono riuscita finalmente a spiegarmi quando ho preso in mano la sua pratica e quella di un’altra persona che l’ha preceduta di qualche ora. Signor Diatta, non so in quali altri termini potrei esprimermi: lei ha senza dubbio un sosia».
Il ragazzo sembrava non capire.
«Sosia? Cosa significa che ho un sosia?»
«Beh, ecco, non le nascondo che è una situazione incresciosa» proseguì l’avvocato Faccioli. «Cercherò di essere chiara. Poco prima che lei si presentasse qui, è venuto un ragazzo con cui non solo condivide in modo singolare i tratti somatici, ma anche l’identità a quanto pare. Insomma» disse vedendo che Mamadou si faceva sempre più perplesso «è venuto un soggetto che le assomiglia molto, spacciandosi per lei. Mi ha detto di essere Mamadou Diatta e mi ha presentato dei documenti. Non potevo certo sospettare di niente finché lei, il secondo Diatta, si è presentato qui! Dapprima ho pensato a un caso di omonimia, o a uno scherzo, poi le cose si sono chiarite. Per farla breve il sosia dice di essere lei. Il problema è che adesso ufficialmente lo è, perché è in possesso del suo permesso di soggiorno».
«È uno scherzo?»
«Vorrei che lo fosse, signor Diatta. Ma non disperi, possiamo facilmente risalire all’identità di questo signore. Mi ha messo in contatto con lui il signor Luna, è un ragazzo che vive nel centro di Alba Adriatica».
Mamadou iniziava a scaldarsi. «Non può essere, è il tizio di cui parlava Luna quando mi ha detto che c’è uno che mi assomiglia… Come si chiama pure? Issiakà! È per forza lui. Avvocato, l’hanno ingannata! C’è un equivoco! Diatta sono io. Ho i documenti, lo giuro!»
«Si calmi, la prego. Le credo. Ho confrontato i documenti con la sua pratica per il rinnovo. È evidente che l’impostore è il suo sosia. Non si agiti, cercheremo…»
«Non la passerà liscia» la interruppe Mamadou. «Lo incontrerò alla serata conclusiva del torneo di calcio di Alba Adriatica. Luna mi ha detto di averlo invitato. Appena vedo che faccia ha, gliela spacco!»
«La prego, non si scaldi così!»
Mamadou si era alzato in piedi e camminava furioso per la stanza. «Stasera voglio che tutto sia chiarito. Mi auguro di non giocargli contro» sentenziò minacciosamente, prima di lanciarsi in tutta fretta fuori dall’appartamento.
Alba Adriatica, 20 giugno 2015, ore 20.00
Nello stadio di Alba Adriatica le squadre per il quadrangolare di beneficenza che avrebbe chiuso il torneo si formarono in modo a dir poco caotico. Issiakà si fece assegnare alla squadra dell’Africa orientale, preoccupato più di camuffarsi in mezzo ai compagni che della prestazione. Giocò la prima partita contro l’Africa Sub-sahariana e, al fischio di fine incontro, trovò rifugio dietro alcuni cespugli accanto alle tribune. Non si sentiva più così sicuro del suo piano. Come aveva potuto credere che nessuno si sarebbe accorto di nulla?
Uno scroscio di applausi accompagnò l’ingresso in campo dei giocatori dell’Africa occidentale. Mamadou era arrivato da poco e si era infilato in fretta divisa e scarpini, guardandosi intorno nervoso. Dov’era Issiakà? Vide l’auto dei carabinieri, una volante parcheggiata poco distante dalla rete di delimitazione del campo. All’interno, due uomini in divisa sgranocchiavano patatine come veri tifosi.
«Sasà, chi hanno detto che gioca?» fece quello seduto nel posto del passeggero con i piedi appoggiati sul cruscotto.
«Non ho capito bene Mario, credo l’Africa occidentale contro il Maghreb».
«Allora usciamo, Sasà. Può essere che giochi il tizio che cerchiamo».
Si portarono verso la zona centrale del campo, costeggiando la rete. Sasà passò in rassegna i giocatori, confrontando le fisionomie con una foto che aveva messo a favore di luce.
«Mario, dì un po’, quello là non sembra il tizio che stiamo cercando? Il difensore».
Mario aguzzò lo sguardo: «Non lo so Sasà, non ci vedo un accidente da lontano. Però se lo dici tu mi fido».
«È lui senz’altro. Muoviti, non perdiamo tempo!»
I due corsero verso l’entrata del campo, allontanarono il magazziniere che chiedeva invano spiegazioni e attirarono l’attenzione dell’arbitro: «Ferma la partita!» gli gridò Mario.
I giocatori guardavano perplessi, mentre il pubblico rumoreggiava. Sasà si diresse deciso verso Mamadou: «Issiakà? Vieni con noi!»
Diatta lo guardò sbalordito: «Scusi, ma dev’esserci un equivoco, io sono Mamadou Diatta, Issiakà non…»
«Sì, come no!» lo interruppe Sasà prendendolo per un braccio «E dire che questo Issiakà della foto è proprio uguale a te. Andiamo, su!»
«Ma io non sono Issiakà!» gridò Mamadou cercando di liberarsi dalla presa: «Ragazzi, diteglielo anche voi!»
«Su Issiakà, è inutile che continui la commedia. Sappiamo tutto. Sei in stato di fermo. Questa notte la passi in centrale».
«Ma io sono Diatta! Ve lo possono dire anche loro!»
«Non fare resistenza, è un consiglio» intervenne Mario. «E voi, via! Arbitro, riprenda la partita!»
Sentendo pronunciare il suo nome, con grande circospezione, Issiakà aveva sporto la testa da sopra il cespuglio che lo nascondeva e aveva osservato due carabinieri trascinare fuori dal campo Mamadou, che urlava e scalpitava. Spaventato, aveva approfittato del caos generale per sgattaiolare fuori dal centro sportivo.
Alba Adriatica, 21 giugno 2015, ore 9.00
Quella notte il signor Luna ebbe il sonno agitato e in seguito non seppe dire se la colpa era stata della scena a cui aveva assistito, delle akras di Buonanima o del fantasma di baay Diatta, che era andato a fargli visita. Il fermo di Issiakà, la sparizione di Mamadou e l’agitazione sugli spalti lo avevano convinto, seppur a malincuore, a sospendere il quadrangolare. Sotto braccio alla signora Buonanima, seguito dal figlio che tirava calci ai sassi, aveva lasciato per ultimo lo stadio e si era avviato verso casa. A cena nessuno aveva parlato e lui si era ritirato presto, addormentandosi subito.
Era una giornata calda e soleggiata, di quelle in cui l’aria ti secca la gola. Assetato, era entrato in un bar e aveva chiesto un bicchiere di acqua gassata. Al bancone la sagoma corpulenta di un uomo di colore gli dava le spalle, ma lui avrebbe riconosciuto la maglietta che indossava e il borsone che portava con sé tra milioni di magliette e di borse.
L’aveva chiamato: «Baay Diatta! Che ci fai qui?»
Lui si era voltato e l’aveva guardato come se sapesse già che era lì: «Sto aspettando Mamadou, Alioune. Il treno parte tra dieci minuti e lui ancora non si vede».
«Dove andate?»
«A Roma. Ieri è arrivato Issiakà. Andiamo a prenderlo».
«Issiakà?»
«Sì, l’altro mio figlio di cui qualche volta ti ho parlato. Quello che ho lasciato in Senegal con Selima. Il fratello di Mamadou!»
Baay Diatta gli aveva allungato quel che rimaneva di una fotografia e lui l’aveva presa in mano. Una donna in kaftan nero, ritta in mezzo alla via, guardava accigliata verso colui che le stava scattando la foto. In braccio teneva un bambino di forse tre, quattro anni, che le stava infilando una manina sotto il turbante porpora.
«Eccolo, il mio bambino!»
«Come pensi di poterlo riconoscere dopo tutti questi anni?»
«Dal tatuaggio, Alioune. Dal tatuaggio».
Alioune si svegliò di soprassalto e si vestì in fretta e furia. Afferrata una delle akras rimaste la sera precedente, fece il numero dello studio dell’avvocato Faccioli.
«Pronto? Signor Luna, buongiorno! Mi dica tutto…»
Alioune parlò. A quanto pareva, i carabinieri avevano commesso un errore ed era evidente che l’improvvisa impossibilità dell’avvocato a presenziare alla serata precedente aveva contribuito all’equivoco. Pertanto, era suo dovere professionale porre rimedio alla situazione.
«Sì, certamente, Alioune, andremo insieme… No, portando i documenti dovrebbe essere libero di andarsene già in giornata… Sì, passo a prenderla io, a dopo!»
Allacciandosi le stringhe, Sara notò di aver indossato due calze dello stesso colore, ma di due paia diverse: alcuni neri sono indubbiamente più uguali di altri, e non è difficile scambiarli di posto.
Alba Adriatica, 21 giugno 2015, ore 13.30
Mamadou era potuto uscire dal centro di accoglienza poche ore dopo l’arrivo dell’avvocato e del signor Luna. Tutto era stato chiarito e i carabinieri avevano già scoperto che Issiakà, quello vero, da qualche giorno risultava essere stato ingaggiato dal Pescara calcio. Nel tornare a casa, i sassi e le lattine vuote che incontrava lungo il tragitto diventavano alternativamente il pallone da tirare verso la porta e gli stinchi di Issiakà da prendere furiosamente a calci.
Pescara, 21 giugno 2015, ore 17.30
In quelle stesse ore, sul campo del Pescara, Issiakà, ignaro della liberazione di Mamadou, si stava allenando. Sugli spalti, a guardarlo giocare, c’era il signor Luna. Si sforzò di non incrociare il suo sguardo. Mentre stava provando i calci piazzati, si sentì chiamare. Guardò fisso il pallone, concentrandosi sulle cuciture che lo dividevano in esagoni regolari, cercando di convincersi che la voce era solo nella sua testa.
«Issiakà, workat! Dove sei?»
Mamadou, aggrappato alla rete di delimitazione del campo, urlava il rancore per l’ingiustizia subita, che dal giorno del torneo era cresciuto ora dopo ora.
Issiakà perdette il controllo del pallone. L’allenatore fermò il gioco: «Ehi Diatta, ma chi è questo, si può sapere? Che cos’ha da urlare?»
Issiakà guardò verso la rete: «Scusi, mister» mormorò, «un secondo solo!»
«Vieni qui, doomu haram, vieni qui che ti insegno io a fare il coglione!» disse Mamadou in tono di sfida.
«Aspetta, posso spiegarti, io non volevo che succedesse tutto questo, ho sbagliato, non…» iniziò Issiakà, ma il pugno di Mamadou arrivò improvvisamente ad interromperlo, preciso, colpendolo all’angolo della bocca. Issiakà si toccò il labbro sanguinante, barcollando. Poi in un lampo fu addosso all’altro e i due caddero a terra rotolandosi nell’erba, urtandosi e insultandosi.
Sembravano sordi a tutto il resto. Nessuno dei due si accorse che un tifoso, spaventato, aveva chiamato i carabinieri e che due uomini in divisa si avvicinavano. Il mister separò i due giovani che, gonfi di rabbia e di lividi, si voltarono le spalle.
«Sasà, guarda chi abbiamo qui. Mi sa che i ragazzi hanno voglia di farsi un giro in centrale!»
«Aspetti!» intervenne il mister indicando Mamadou. «Lei conosce questo ragazzo? Cosa succede? Forse possiamo risolvere…»
«Mi scusi, ma questi li conosciamo da un po’» lo interruppe Sasà. «Si divertono a fare i furbi. Si vede che hanno bisogno di una rinfrescata di idee. Forza, salite in macchina!»
I due, afferrati per le braccia, salirono senza opporre resistenza e senza guardarsi. I lividi cominciavano a far male.
Pescara, 21 giugno 2015, ore 19.15
«Ragazzi che vi è preso? Per poco non vi ammazzavate!» Mario rimproverava i due giovani mentre, stringendo per un braccio Mamadou, entrava affaticato nell’ufficio della Questura. Sasà lo seguì portandosi dietro Issiakà, che teneva gli occhi incollati al pavimento. Subito dopo entrarono nella piccola stanza anche il signor Luna, che aveva assistito angosciato alla rissa e aveva insistito per poter seguire i poliziotti, e il giovane avvocato Faccioli, che, avvisata da Buonanima, si era precipitata in Questura e osservava tutto con uno sguardo attento e, forse, anche un po’ eccitato.
Una volta che furono tutti dentro, Mario chiuse la porta e si sedette alla scrivania. Calò il silenzio in mezzo a quello strano cerchio: Sasà non faceva che spostare i suoi occhietti dall’uno all’altro ragazzo, osservando l’incredibile somiglianza fra i due e chiedendosi se stavolta non avesse esagerato con il vino; Mamadou guardava in cagnesco Issiakà che, tremante, teneva lo sguardo basso.
Mario prese di nuovo la parola: «Non ce l’ho con voi e non voglio mettervi nei casini più di quanto non lo siate già, ma vorrei che qualcuno mi spiegasse la situazione. Sinceramente, non ci capisco più nulla! Issiakà, Mamadou… chi è chi? Diamine ragazzi, siete due fotocopie!»
«Questo tipo è un imbroglione! Come ve lo devo dire?! Je ne suis pas Issiakà, io mi chiamo Mamadou e non ho idea di chi cavolo sia questo Issiakà!»
Mario alzò la voce: «Va bene, calma adesso! Avvocato, mi sa dire qualcosa di questa storia?»
«Ehm, ehm… ecco, sì. È chiaro che siamo di fronte a un grandissimo equivoco, maresciallo. Si dà il caso che io abbia avuto modo di indagare sulla questione: entrambi i giovani sono venuti da me per il rinnovo del permesso di soggiorno e mi sono accorta solo dopo aver già fornito il permesso a quel ragazzo – e indicò Issiakà – che i documenti che mi aveva portato erano falsi. Erano ben fatti, ma dopo un’attenta analisi sono riuscita a capire tutto: il finto Mamadou, o il vero Issiakà, come preferite, non è che un furbo che voleva sfruttare la sua somiglianza con un connazionale sistemato molto meglio di lui per poter ottenere i documenti necessari per stare in Italia. Una beffa ben architettata, se non fosse che…»
«Se permette, vorrei dire una cosa». Il signor Luna interruppe deciso lo sproloquio dell’avvocato, che si zittì infastidita, lanciando un’occhiataccia a quel “vecchio saccente”.
Alioune riprese, senza degnarla di attenzione: «Temo che ci sia in gioco molto di più che una semplice furbata. C’è in gioco la storia di una famiglia».
Nella stanza calò un silenzio improvviso.
«Issiakà, tu l’avevi già capito, vero? Mamadou, ti presento tuo fratello. So che vi hanno separati quando eravate molto piccoli e che i vostri genitori non hanno mai parlato all’uno dell’altro. Non riesco a capirne il motivo ma, purtroppo, è ormai troppo tardi per chiederlo». Mamadou aveva cambiato aspetto: il volto era passato velocemente da un’espressione arrabbiata a una stupita, incredula, confusa. Guardò il volto un po’ ammaccato di Issiakà e, forse per la prima volta, lo fece con attenzione. Alioune si rivolse ad entrambi: «Per favore, ragazzi, alzatevi la maglietta. Permette, maresciallo?» Issiakà si sollevò la sua fin sulle spalle. Sotto la scapola destra era disegnato un piccolo sole.
«Mamadou…» lo incoraggiò il signor Luna. Il giovane calciatore mostrò a sua volta la schiena: un tatuaggio identico fece capolino da sotto la maglietta. Buonanima sussultò.
«Mi chiedo come ho fatto a non pensarci prima, sono stato uno sciocco. Ma mai avrei pensato che Issiakà avrebbe affrontato un viaggio simile da solo. Forse baay Diatta avrebbe voluto raccontarvi tutto, riunita di nuovo la famiglia. Purtroppo non ha fatto in tempo».
Sasà guardava Mario, che guardava Buonanima, che guardava suo marito, che riprese la parola: «Issiakà, ti sei comportato male, molto male. Spero che tu lo riconosca. La vita è stata ingiusta con te, ma non hai alcun diritto di rovinare quella di tuo fratello. Seppur per te sconosciuto. Prego questi signori di essere clementi, per Mamadou, ma soprattutto per quell’anima buona di baay Diatta, che prima della malattia si è speso tanto per le comunità, italiane e non, qui intorno. Sono certo, voglio essere certo, che una cosa del genere non ricapiterà mai più».
Issiakà alzò finalmente lo sguardo: un labbro ancora sanguinava e aveva gli occhi lucidi, tristi. In un angolo, Sasà si soffiò il naso e, cercando di non farsi vedere, si passò il fazzoletto sugli occhi: «Oh, avanti Ma’!»
Mario aveva l’aria di chi cerca una soluzione: «Ragazzi, siete fortunati ad essere capitati sotto l’ala protettiva del signor Luna, che stimo e ammiro e che non poche volte mi ha dato una grande mano. Ma, come si dice, la legge è legge e non si possono chiudere entrambi gli occhi. Ci saranno altre indagini. Mamadou, devi restare a disposizione. Issiakà, per te la faccenda è un po’ più complessa. Devi rimanere qui per il momento. Signor Luna, credo che avrà bisogno di un buon avvocato» disse guardando la Faccioli con piglio severo. «Ora potete tornare a casa. Ne avete bisogno!»
La piccola e stramba comitiva si preparò ad uscire. Sara Faccioli sfrecciò via stizzita, con un breve cenno, offesa dalle insinuazioni del maresciallo. Alioune, prima di andarsene, disse a Issiakà di non preoccuparsi, che in qualche modo avrebbero risolto la faccenda. I due fratelli rimasero soli per un attimo; fu uno strano momento, i due si erano ritrovati ma, in fondo, non si erano mai cercati. Capirono in pochi sguardi che ormai, morto baay Diatta, le loro vite difficilmente avrebbero potuto intrecciarsi ancora.
«Adieu…»
Si salutarono, con leggero imbarazzo. Mamadou fece un breve cenno con il capo e si voltò, mentre Issiakà guardò uscire suo fratello. Quel perfetto sconosciuto.
10 giugno 2016
«Che giorno è oggi? 10 giugno… sarà meglio informarsi per il rinnovo del permesso». Mamadou pensava fra sé e sé, fissando il calendario appeso al muro della cucina. Poi afferrò il borsone del calcio e uscì di casa. Scendendo le scale, incontrò il suo vicino, il signor Alfonso Cola: «Ehi, ciao Mamadou, vai ad allenarti?» lo salutò.
«Sì, domenica abbiamo una partita!»
«Sempre terza divisione?»
«Sì…» rispose Mamadou, con un monosillabo che era più una confessione che un’affermazione.
«Dai, che quest’anno fai il salto!» gli strizzò l’occhio Alfonso, pronunciando con poca convinzione la frase di rito.
Sara Faccioli stava bevendo una bibita fresca presa dal mini-frigo del suo studio. Guardò le gocce di condensa che si erano create sulla superficie della lattina e, notando che due di esse scivolavano parallelamente l’una all’altra, sorrise. Che pasticcio, quello dei due fratelli. Alla fine Alioune l’aveva fatta riflettere sulle ragioni che potevano aver condotto Issiakà a decidere di mettere in atto quella truffa. «Se tutti ti chiudono la porta in faccia, finisci per aprirtene una con l’accetta» pensò.
Chissà che fine aveva fatto quel ragazzo, e chissà se aveva imparato la lezione. Dopo la scazzottata con Mamadou non se n’era più saputo nulla.
Lamine Diatta, ex giocatore senegalese in Francia, stava seduto a un tavolino nel dehor di un bar di Marsiglia. Era lì per incontrare alcuni amici che si erano stabiliti in quella città, conosciuti ai tempi in cui era stato ingaggiato dall’Olympique de Marseille. Era ormai qualche anno che aveva smesso di giocare, andava per i quarantuno. Si accese una sigaretta – un’altra piccola soddisfazione che da sportivo si era dovuto negare – e aprì il quotidiano adagiato sul tavolino alla pagina della cronaca. Il suo stesso nome giganteggiava nel bel mezzo di un titolo: “Giovane immigrato proveniente dal Gambia si finge stella del calcio senegalese per partecipare alle selezioni dell’Aubagne. Issiakà, 19 anni…”
Lamine Diatta richiuse rabbiosamente il giornale, prese il cellulare e compose il numero del suo avvocato: «Pronto? Ho bisogno della sua assistenza per sporgere una denuncia».
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