Salvati – Matilde Ciolli, Brigida Gianzi, Donata Guglielmelli, Luca Tassoni

In piazza Celi Curatolo non era ancora scesa l’alba. I banchi del pesce erano vuoti, le strade pulite e ancora bagnate. La statua della madonnina, alta e austera, vigilava le acque del mare agitato. Salvatore si era alzato alle 3:45 come di consueto, aveva riscaldato il caffè amaro preparato da sua moglie la sera prima e si era recato in spiaggia per andare a pescare. Sul lungomare ancora non si vedeva nessuno a vendere il pesce. Qualche spigola di taglia, sarago o mormora, li avrebbe portati presto lui. Gli piaceva pescare vicino al porto, lontano dalla madonnina e con il faro alla sua sinistra. I colori accesi delle barche sull’arenile risplendevano nel grigiore di quel giorno. Il rosso, il giallo, il bianco e il blu luccicavano nel nero del cielo nuvoloso. Le barche di legno avevano i nomi dei santi protettori: San Gennaro, Sant’Angelo, San Francesco, Sant’Antonio, Santa Maria Immacolata, e facevano sentire Salvatore meno solo.

In spiaggia non c’era ancora nessuno, gli altri sarebbero arrivati all’alba per augurarsi un felice anno. Nel frattempo Salvatore aveva preparato l’esca e attendeva con pazienza l’arrivo del suo pranzo di San Silvestro. Il vento aveva quasi congelato le sue mani, se ne stava immobile e seduto a guardare fisso verso il mare. Scrutava nel buio e dava al mare i suoi pensieri, glieli affidava, come gli affidava se stesso quando andava in barca.

Per un attimo gli parve di vedere un’imbarcazione in lontananza, ma era ancora buio e non ne era sicuro. Era lontano dalla riva e si avvicinò per guardare meglio. Prese la sua torcia e la puntò davanti a sé. Non poteva credere ai suoi occhi, ma dei volti umani vennero illuminati. D’istinto, abbassò il braccio e illuminò i suoi piedi. Aveva bisogno di guardare a terra; quelli che aveva visto non potevano essere uomini. Puntò di nuovo la torcia verso il mare e vide che invece si trattava proprio di persone, disperati che stavano per naufragare. Cosa fare? Impulsivamente corse verso le case che affacciavano sul porto: «Tonì, Mario, Miché, ghesciti. Ci su persune ‘ntru mari. Affucanu, affucanu, aiutamuli!»1

Subito accorsero sulle strade gli altri marinari e con lui avvertirono la guardia costiera. Le loro grida stavano svegliando buona parte del paese e tanti volti assonnati si riversavano sulla spiaggia. Era tutto vero: un’imbarcazione era stata abbandonata dagli scafisti a metà tragitto e stava affondando. Per fortuna i soccorsi non si fecero attendere molto.

Tutto gli era familiare in quella scena, il prostrato affanno dei naufraghi e il senso di inutilità provato dagli spettatori, lui e gli altri marinari che stavano a guardare cercando di dare una mano. Una donna stringeva la mano del figlio e gli ordinava di stare lontano dal mare, come quarant’anni fa fece sua madre Elena con lui da bambino, mentre suo padre e i suoi zii scomparivano nelle acque, si agitavano e si dimenavano come questi uomini davanti ai suoi occhi.

«Ma questi non sono uomini di mare» pensò, chissà se tutti sanno come si nuota, come si salva la propria vita da soli. Suo padre sapeva nuotare e pure i suoi zii, ma il giorno in cui i loro motopescherecci affondarono, ci fu una bufera a risucchiarli, a trascinare i loro corpi in un turbine di motori e legno.

***

Quarant’anni fa, il giorno prima di San Silvestro, avevo detto a mio padre che non me la sentivo di andare a pescare la mattina dopo. Avevo preferito rimanere a casa con mia madre ed aiutarla a preparare il cenone per Capodanno. Ero felice perché una tale abbondanza si vedeva solo in certi giorni dell’anno.

Quei pazzi dei miei cugini avevano messo dei botti da parte dall’anno prima e altri li avrebbero barattati con gli amici del quartiere. Mio padre avrebbe lottato col capitone e infine l’avrebbe ammazzato e io sarei stato dietro ad ammirare la resistenza di quel pesce. Il sangue non mi impressionava e un giorno sarebbe toccato a me farlo.

Il tempo quel giorno era tremendo, il vento di tramontana soffiava e il caminetto faceva fumo, impregnando i vestiti puliti. Improvvisamente avevo sentito molto trambusto fuori. Le urla del vicinato divenivano sempre più acute. Mia madre si era affacciata e aveva gettato a terra un panno con il quale stava pulendo la finestra. Mi aveva preso per mano e gli aveva detto: «Iamunnine aru mare, svelto».2

In spiaggia c’erano già tutti. La famiglia Celi e Curatolo al completo. Nonni, zii, figli, nipoti, tutti gridavano i nomi degli equipaggi. Ma la Maria Santissima, benché molto vicina, non si vedeva nel mare mosso, e le voci dalla Sant’Angelo in quella bufera erano incomprensibili. Le onde sembravano alti muri e i soccorsi non arrivavano.

Un senso di colpa mi affliggeva. Sarei dovuto andare con mio padre e dargli la forza del capitone. Ma tante volte lo avevo visto ritornare e mai avrei dubitato di quel mare. L’equipaggio aveva combattuto fino in fondo però, e io avevo tifato per quelle due barche, come per incitarle a rimanere sulle acque, a sfidare gli abissi. La Nuova Sant’Angelo — la barca dove si trovava mio padre — la vedevo bene, ma di quella maledetta Maria Santissima nemmeno l’ombra.

In spiaggia le famiglie erano disperate, i marinari chiamavano aiuto ed era tutto un vociare di malanova mia, maronna mia, fino a quando le donne non si buttarono in mare.

«Ghescite i là! ciote!»3 gridava loro la gente.

Era buio e non sapevano nuotare, le acque ricoprivano solo le gambe e bagnavano le loro gonne lunghe. Tornarono a riva con le lacrime agli occhi.

Il giorno dopo, la televisione della piazzetta Portofino trasmetteva la notizia: “La Nuova Sant’Angelo è colata a picco quando si trovava ormai a soli cinquanta metri dal porto, trenta dicono i testimoni, e la Maria Santissima è scomparsa a dieci chilometri a nord di Schiavonea”.

Da bambino avevo odiato i nomi di quelle barche: «Se solo si fossero chiamate Zeus e Atena» pensavo di tanto in tanto «avrebbero avuto più fortuna». Ancora ricordo il titolo de “L’Unità” del 1975: I dodici pescatori morti sotto gli occhi di tutto il paese, e ancora Ventidue i bambini che hanno perso il padre, e Due famiglie dimezzate.

Ero molto stanco, i giorni di lutto erano lunghi e le persone si accalcavano nella nostra piccola casa. La domenica tutti piangevano e portavano da mangiare. Ero grato per tutta quella abbondanza che non avevo mai visto. Pesce spada, addirittura, e pitta con i fiori di zagara.

Qualche giorno dopo il naufragio chiamarono mia madre e la zia Demetra per riconoscere un corpo che il mare aveva restituito. Feci tante storie per andare con loro, volevo vedere se quello era mio padre. Le braccia aperte e stese sulla sabbia, il corpo attaccato a un remo, il viso coperto. Mio zio Carlo aveva le sembianze di un Cristo.

***

Quel giorno le acque torbide erano le stesse di allora. L’acqua è una sostanza pura, un composto chimico stabile, che non cambia. Proprio come questo luogo. Il mare è rimasto uguale in questo posto dove nulla è cambiato. È forse lui a dettare le leggi, a opporre resistenza al cambiamento. Il rumore delle onde scandisce le giornate dei pescatori che compiono piccoli movimenti in perfetta coordinazione, quasi in silenzio religioso di fronte alla madonnina. Al sorgere del sole, con le maniche alzate, gli stivali fino al ginocchio, si muovevano ieri, si muovono oggi i pescatori dalla pelle nera, bruciata dal sole e dalle mani ruvide come la corda.

I pescatori di Schiavonea parlano poco durante il rito sacro del loro lavoro, emettono brevi inghiana, scinna, tira, gaza,4 senza nemmeno guardarsi.

Quando andavano a pescare le sarde suo padre dirigeva un intero gruppo dal peschereccio in legno colorato. Si metteva in piedi e remava per rimanere fermo vicino alla riva, mentre Salvatore e i suoi zii prendevano le estremità delle reti rosse e catturavano le sarde. Subito dopo arrivavano le mogli con le cassette per riempirle di pesce e correre al banco per andare a venderlo. Nulla di tutto ciò era cambiato, solo il bianco delle cassette che oggi sono in polistirolo e un grande porto pochi metri più in là.

La costruzione del porto fu uno dei pochi interventi mirati nel Mezzogiorno, così scrivevano i giornali dell’epoca. Qualcosa doveva aver turbato gli animi di qualcuno forse, perché, subito dopo la morte della famiglia di Salvatore, si costruì un porto per garantire la sicurezza dei pescatori nella piana di Sibari. All’epoca le imbarcazioni erano sparse sull’arenile e la flotta consisteva in quaranta motopescherecci e centocinquanta barche. Era un caso unico in Italia: con una flotta peschereccia di tale consistenza – all’epoca la più grande in Calabria – non esisteva nessun porto rifugio, nemmeno una diga frangiflutti, un’opera di modesto impegno e costo. Se ci fosse stata, almeno gli uomini della nuova Sant’Angelo si sarebbero potuti salvare.

La Sant’Angelo e la Maria Santissima erano motopescherecci praticamente nuovi. Il padre di Salvatore e i suoi zii erano appena tornati dalla Germania, dove avevano lavorato faticosamente per guadagnare qualcosa con il desiderio di comprare ai figli delle barche migliori, più moderne. Furono proprio quelle barche nuove a tradirli, a risucchiarli nelle acque, di fronte ai suoi occhi e a quelli dell’intero paese che stette a guardare.

***

Ormai al porto la gente si stava attivando, tutti parlavano e intanto contavano: salvagenti, torce, funi e ancora, mascherine, coperte, acqua… Anche Salvatore contava, almeno quello lo sapeva fare, e pure bene. Alcuni accesero i motori dei gommoni e caricarono parte dei salvagenti, altri salirono su dei pescherecci con tutto il necessario. Era difficile capire cos’era più urgente fare, molti nell’insicurezza ripetevano gli stessi gesti a momenti alterni. Non c’era una voce di riferimento.

Finalmente giunsero due motovedette della guardia costiera. Salvatore riuscì a capire che in mare c’era un barcone carico di persone proveniente dall’Eritrea. Un barcone, nessun nome, nemmeno il santo che lo protegge.

Salvatore e gli altri scesero in spiaggia trasportando quello che gli veniva dato. Quelli in mare iniziarono ad avvicinarsi ai barconi, a impartire ordini semplici, in inglese, a tranquillizzarli, a dirgli che erano in salvo. Gli lanciarono salvagenti, non dovevano agitarsi, il mare non gli dava tempo, toglieva forza. Attaccarono delle funi dalle imbarcazioni ai barconi, si avvicinarono di più. Dalla spiaggia erano un ammasso confuso che piano piano prendeva forma.

Il giorno, nel frattempo, arrivava a rischiarare il nero di quella notte. Poche parole, forti, chiare, per non lasciare il silenzio alla paura di non farcela. Appena l’onda era meno forte si riusciva a sollevare i bambini tenuti da entrambe le parti e ad afferrarli mettendoli al sicuro. Prendevano un bambino, sorretto da un uomo e guardato da cento. Passati tutti i bambini si provò a fare la stessa cosa con le donne che prendevano posto nei gommoni e nei pescherecci, ora dopo ora.

Un uomo nell’arrampicarsi perse l’equilibrio e fu mantenuto da altri. Fratellanza che non si scopre sempre, ma sempre continua a rivelarsi. Ad una ad una le imbarcazioni si riempirono e cambiarono direzione, i barconi rimasero vuoti. Le disposizioni erano di distribuire gli immigrati in più porti. Tutti erano stati avvertiti, erano pronti. Il mare però non si calmava, così si decise diversamente. Il freddo era pungente e il porto di Schiavonea a pochi metri. Intanto era già giorno.

***

Nel giro di qualche ora non c’era più nessuno. I vestiti e i corpi, e con questi ultimi la loro vita, erano stati recuperati e soccorsi, contati e trasferiti dalle autorità competenti.

Io mi ero attardato sulla riva, continuavo a guardare il mare e a camminare avanti e indietro. Tenevo sempre lo sguardo dritto, lontano, dove quel giorno erano arrivati i barconi, ma il mio pensiero andava altrove. Rivedevo le barche di un altro giorno, le barche che portavano i corpi di mio padre, dei suoi amici, dei suoi compagni pescatori. E così mi sembrava che quarant’anni non fossero trascorsi affatto e che fossi ancora un bambino di dieci anni che camminava sulla riva aspettando la barca del padre. O forse mi sembrava che tutti quegli anni fossero trascorsi in un secondo, che mi fossi trovato all’improvviso più vecchio, sempre ad aspettare quella stessa barca.

Tra questi pensieri mi sorprese il tramonto. Ero stanco e avevo bisogno di riposarmi un po’. Puntai il solito scoglio, un po’ defilato, su cui ero solido sedermi. Stentavo a riconoscerne il profilo, sembrava più grande quella sera. Più mi avvicinavo e più mi rendevo conto che accanto a quello scoglio c’era una sagoma da esso distinta. Una sagoma umana: un migrante dimenticato, o meglio non visto, probabilmente perché lo scoglio impediva di scorgerlo dalla riva. Era stremato ma vivo. Respirava freneticamente, con la pancia in su e le mani aperte, gonfiando e sgonfiando velocemente il torace.

Non gli parlai ed egli non mi parlò. Voltò soltanto la testa per fissarmi con i suoi occhi scuri che pure brillavano nel buio, mentre continuava a respirare affannosamente. Lo aiutai ad alzarsi, a camminare lentamente verso la riva, a sedersi per qualche minuto sulla panchina del lungomare. Per tutto il tempo continuammo a non parlare: io non gli chiesi nulla, lui non mi rispose nulla.

Non so dire esattamente perché presi la decisione che ho preso. La cosa più sensata da fare sarebbe stata quella di consegnarlo alle autorità. Di chiamare la Polizia e avvisare che tra tutte le persone che erano state soccorse, salvate e trasferite, una era rimasta dispersa tra i dispersi, non era stata vista, notata. Nel pieno di un naufragio era naufragata lontano dai suoi compagni di viaggio.

Invece questa volta decisi che le cose sarebbero andate diversamente rispetto a quarant’anni fa con mio padre: questa volta il naufrago l’avrei salvato. Il senso di impotenza di fronte alla morte di mio padre in quel mare infedele mi aveva creato una ferita che ancora non ero riuscito a rimarginare. Sentivo il bisogno viscerale di fare personalmente qualcosa per quell’uomo. Non potevo sopportare la morte di un altro naufrago davanti ai miei occhi. Avevo bisogno di salvarlo e soprattutto avevo bisogno di farlo io. Io che avevo lasciato da solo mio padre quel giorno e che ero a riva mentre il mare lo trascinava giù. Forse lo facevo solo per me, chissà. Ma la mia ricerca di pace avrebbe potuto dar pace anche a lui.

Mi allontanai per andare a prendere la macchina che avevo parcheggiato lì vicino, la portai nei pressi della panchina, scesi ed aprii lo sportello anteriore. Ancora senza parlare e questa volta senza nemmeno il bisogno che lo aiutassi, si alzò dalla panchina, fece un paio di passi, salì in macchina, si sedette e stese il braccio per chiudere lo sportello. Lo portavo a casa.

***

Nascondere una persona nella tua casa è come nascondere un prigioniero. Anzi, è come nasconderne cento, mille di prigionieri. Perché non solo la persona che si nasconde non può uscire, appunto perché nascosta e da sottrarsi alla vista degli altri, ma questa fa sì che anche tutti gli altri che sono fuori non possano entrare. Per quelle due settimane, infatti, io e mia moglie abbiamo condotto una vita piuttosto riservata. Soprattutto allo scopo di evitare qualunque domanda, per la paura di tradirci, di fare capire che stavamo nascondendo qualcosa. Qualcuno.

A dire il vero mia moglie aveva accolto il nuovo ospite con molta perplessità, per non dire che era spaventata all’idea di nascondere in casa uno sconosciuto, per giunta irregolare. Clandestino. Aveva paura soprattutto di cosa sarebbe potuto succedere se lo avessero scoperto, se ci avessero scoperto, se qualcuno dei vicini lo avesse visto e avesse fatto anche solo qualche commento, qualche allusione in giro. Perché non era proprio necessario che si andasse alla Polizia per sporgere una formale denuncia. Alla delazione basta una mezza parola.

Quindi le nostre giornate trascorrevano tra questi timori e perplessità, con la convinzione di fare la cosa giusta da un punto di vista umano, di non avere nulla di cui vergognarsi ad aiutare qualcuno che si trova in uno stato di bisogno, ma nello stesso tempo con la fastidiosa sensazione che comunque il nostro gesto non fosse regolare dal punto di vista della legge e il nostro comportamento fosse sanzionabile, se non agli occhi di Dio, almeno agli occhi degli uomini.

Durante la giornata, i nostri momenti più significativi di socialità reciproca si concretizzavano all’ora dei pasti, quando lo guardavamo mangiare, seduti di fronte a lui nella tavola della cucina. Era una socialità muta, poiché la differenza della lingua ci costringeva a comunicare con gli sguardi. I suoi che esprimevano una composta gratitudine, mentre masticava con la bocca chiusa guardando fisso davanti a sé, ma anche di lato di tanto in tanto, forse per l’imbarazzo dei nostri sguardi insistenti, che non gli davano tregua tra un boccone e l’altro.

Il resto della giornata lo trascorreva nella sua stanza, quella che era stata di mio figlio. Non si sentiva mai, non ne usciva mai, immedesimatosi forse perfettamente nel suo ruolo di segregato. Non apriva nemmeno la finestra, non ne spostava le tende, sebbene quel lato della casa fosse rivolto verso i campi, quindi lontano dagli sguardi degli altri segregati del resto del mondo. Gli unici segni vitali della sua presenza erano rappresentati da qualche colpo di tosse, un paio di starnuti, lo sciacquone del bagno di tanto in tanto. Ogni mattina, quando lo andavo a chiamare per la colazione, aprivo la porta della stanza e lo trovavo sempre già pronto, vestito e seduto sul letto, con le mani appoggiate di lato sulla coperta. Mi era impossibile dire da quanto tempo mi stesse aspettando così.

Lo stesso accadeva all’ora di pranzo e di cena. Finito il pasto non si alzava subito da tavola, ma appoggiava le posate sul tovagliolo, aspettava che mia moglie gli togliesse il piatto vuoto e solo allora spostava all’indietro la sedia, si alzava e saliva di sopra, rigorosamente senza parlare.

Ma un mattino alla fine della seconda settimana, quando finì di mangiare, spostò all’indietro la sedia, si alzò, si diresse verso la sua stanza e si fermò, perché bussarono alla porta. Restò fermo, paralizzato con il piede appena appoggiato sul primo gradino delle scale che conducevano alla sua stanza. Non si voltò, abbassò lo sguardo e girò leggermente la testa verso di noi alle sue spalle. Quando andai alla finestra per scostare le tende sapevo già cosa avrei visto: una macchina della Polizia parcheggiata in cortile, sulla ghiaia, a pochi metri dalle mura di casa mia, entro le quali stavo nascondendo una persona. Qualcuno dei tanti prigionieri, al contrario, aveva parlato.

***

La macchina era vuota, due poliziotti stavano aspettando dietro la porta che qualcuno aprisse. Salvatore e la moglie avevano tanto temuto questo momento, ora gli sembrava di veder tradotte in realtà le immagini che in quei giorni i loro pensieri inquieti avevano anticipato. Attraverso il legno della porta li immaginavano nei loro volti, nelle loro divise, nei loro provvedimenti dettati dalla legge in vigore.

Per un attimo, forse per un intero secondo, entrambi guardarono contemporaneamente verso lo spazio dietro le scale, un piccolo corridoio che conduceva al retro della casa. Però fu soltanto per un secondo, perché poi Salvatore aprì la porta e guardò dritto negli occhi i due poliziotti, senza dire nulla. Si scostò e li fece entrare.

Non ci fu bisogno di molte parole, erano tutti ben consapevoli dell’illecito e sapevano di doverli seguire. I due uomini si fecero da parte per lasciar passare il migrante e insieme si diressero alla macchina parcheggiata in cortile. Il tutto senza che venisse pronunciata una sola parola. Tutto sembrava essere una questione di sguardi, di occhi. Quelli di Salvatore avevano guardato quelli di sua moglie, poi il corridoio verso la porta sul retro, poi gli occhi dei poliziotti e infine quelli del naufrago che avrebbe voluto salvare. Lo sguardo fu ricambiato solo quando questi, salito in macchina, appoggiò il viso al finestrino fissando Salvatore con un’espressione, più che di paura, di rassegnata riconoscenza. La sua espressione non sembrava di qualcuno che si chiedeva dove stesse andando o cosa lo aspettasse. Esprimeva, per Salvatore che li seguiva con la macchina, incertezza per quello che lo aspettava, per le domande che gli avrebbero fatto.

Dalla sua sedia Salvatore lo vedeva attraverso la porta aperta dell’altro ufficio, lontano, seduto di spalle. E mentre entrambi aspettavano il poliziotto che, come era inevitabile, prima o poi avrebbe preso posto alla scrivania, per porre loro delle domande e battere le risposte sulla tastiera del computer, lo vedeva che si voltava, con la stessa espressione che aveva attraverso il lunotto della macchina, la stessa composta agonia. E adesso?

***

Il ricordo angoscioso delle percosse della polizia libica mi paralizzava. La macchina si fermò, gli agenti si girarono verso di me e con una certa veemenza mi dissero qualcosa che non riuscii a capire. Li vidi uscire dalla macchina e aprirmi la portiera, ma non riuscivo a muovermi. Ero esausto. Questa non poteva dirsi vita. Ma l’esperienza mi aveva insegnato che ai poliziotti era meglio obbedire, quindi, pregando che l’Italia fosse un Paese più umano di quelli che avevo attraversato, misi i piedi fuori dalla macchina e seguii i due uomini. Venni scortato all’interno di un edificio: “Questura” riuscii a leggere all’ingresso. Ma ne ignoravo il significato e rimasi quindi nella totale inconsapevolezza di ciò che mi avrebbe aspettato. Dai gesti capii che dovevo sedermi e attendere.

Cosa sarebbe successo? Dove mi avrebbero messo? Ero al sicuro oppure no? I minuti passavano, mi rendevo conto che forse sarebbe stato lì che si sarebbe deciso se il viaggio aveva avuto senso oppure no, ma ormai non percepivo più neanche l’ansia. Ero sfinito, volevo solo una tregua. Una tregua e basta.

Dalla porta intravidi l’uomo che mi aveva ospitato, stava fornendo i suoi documenti ad un agente. Ma per cosa volevano punirlo poi? Un gesto di solidarietà. Solidarietà, già, ne avevo ormai quasi dimenticato il significato. Lui aveva solo tentato di aiutarmi e io non ero neanche riuscito a ringraziarlo, a mostrargli la mia riconoscenza. Questa mia sempre più pervasiva incapacità di provare sentimenti mi spaventava. Dopo tutto quello che avevo visto, che avevo vissuto, avevo perso la voglia di parlare. Mi sentivo muto, arido, apatico. Quest’infinito viaggio aveva brutalmente prosciugato la mia linfa vitale.

Una porta si aprì e ne uscì una ragazza bruna, dal viso solare, che mi si avvicinò sorridendo e porgendomi la mano: «Ciao, io sono Ambra, piacere di conoscerti».

Le strinsi la mano incerto, ma poi mi dissi che era importante trovare il coraggio per parlare. Avevo sacrificato diversi anni della mia vita per arrivare sin lì, dovevo dare un senso a quell’odissea.

«Ciao» risposi flebilmente.

«Parli italiano?» mi chiese speranzosa.

Cercai di ricordare quel poco che ad Asmara sapevo dire: «Solo poche parole. Imparato qualcosa da mio nonno».

«Da dove vieni?»

«Eritrea» risposi con un po’ più di sicurezza.

«Bene, io so parlare tigrino, sono qui per farti da interprete».

Il suono della mia lingua mi trasmise un tenue calore che da tempo non riuscivo più a sentire. La complicità che credevo di poter trovare nei miei compatrioti in questi anni era stata sempre ostacolata dalla paura. La fiducia, nel terrore, è un sentimento che si dimentica.

Ambra mi spiegò che a breve sarei stato interrogato dalla polizia. Mi disse che era di assoluta importanza che facessi richiesta d’asilo politico se lo ritenevo opportuno: mi avrebbe consentito di ricevere assistenza, accoglienza, diritti e magari anche un lavoro, chissà. Così almeno avrebbe dovuto essere. Dovevo raccontare tutto: della mia vita prima di partire, di ciò che mi aveva spinto a lasciare il mio Paese, del viaggio, del barcone. Tutto. Non dovevo trascurare niente.

«Di questi tempi si viene facilmente mandati nei CIE, e lì son dolori» disse Ambra con un tono di voce più basso.

Ripensai alla Libia e subito sentii una dolorosa morsa allo stomaco. Rividi il viaggio che i trafficanti sudanesi ci avevano fatto fare ammassati in container asfissianti fino a Kufra. Lì, per arrivare fino alle coste libiche mi erano stati chiesti 800 euro, una cifra enorme, di cui in quel momento non disponevo. Dovetti imparare sulla mia pelle che se non hai soldi da dare non hai valore, non hai dignità, sei solo spregevole carne da macello. Così, insieme ad altri che non potevano pagare il viaggio, fui portato sì sulle coste libiche, ma in una prigione situata a Mishiratah, vicino Tripoli.

«Ti senti bene?» mi chiese preoccupata Ambra.

Dovevo avere un’espressione eloquente: «Sì, stavo solo pensando alla Libia. Pensavo a quello che dovrò raccontare» risposi.

«So che è dura rivivere la propria storia» disse Ambra.

Forzarmi a parlarne poteva forse farmi bene. Le parole mi uscirono piano, quasi un sussurro, e ripresi il ricordo proprio lì dove l’avevo lasciato, parlando più a me stesso che ad Ambra: «Eravamo tanti ammassati in piccole celle sporchissime e praticamente prive di servizi igienici. Anche lì, per l’ennesima volta, i secondini sembravano essere animati da una passione per la violenza bruta. Le percosse e gli stupri erano all’ordine del giorno. Mi chiedevo come avrei fatto ad uscire da quell’inferno. A pensarci furono dei funzionari che vennero a chiederci le nostre generalità per comunicarle all’ambasciata eritrea: la compilazione dei moduli avrebbe significato un’autocondanna a morte. In Eritrea per noi, una volta fuggiti, non c’era nessuna speranza: abbandonare il proprio Paese è proibito, quindi tornare voleva dire morire. Perciò ci rifiutammo di farci schedare e questo fu sufficiente per farci prelevare dal carcere durante la notte ed essere deportati nella prigione di Al Braq. Lì ho veramente pensato di morire. Ci picchiavano, ci torturavano e ci tenevano per il resto del tempo in luride celle sotterranee con pochissimo cibo, quasi senza acqua, con una temperatura che superava i 40 gradi, nessun servizio igienico e nessuna assistenza alle persone che, per via delle percosse, avevano subito fratture alle braccia, alle costole o alle gambe. La totale mancanza di senso di quelle sofferenze estreme mi mandava ai matti. Vedevo i volti dei miei compagni gemere per il dolore e mi chiedevo: «Perché?»

Sembrava non esistere alcun limite di fronte al quale gli uomini si sentissero costretti ad arrestarsi. Gli imperativi morali erano del tutto sopiti. Mi chiedevo come si potesse restare umani dopo aver inflitto tutto questo.

Dopo una piccola pausa, ripresi: «Uno di noi, per miracolo, era riuscito a tenere un cellulare, grazie al quale avevamo mandato richieste d’aiuto all’Italia, riferendo di essere allo stremo e in condizioni disumane. Speravamo di riuscire così ad essere trasferiti in Paesi in cui veniva riconosciuto il diritto d’asilo, o semplicemente i diritti umani, ma a quanto pare le autorità italiane non mossero un dito, pur sapendo di abbandonarci a morte sicura. Vidi alcuni compagni morire e anch’io avevo perso tutte le forze. Un giorno le guardie ci dissero che il ministro della Pubblica Sicurezza libico ci avrebbe concesso liberazione e residenza in cambio di lavoro. In pratica, da quel momento eravamo schiavi. Dovevamo lavorare senza alcun riconoscimento del diritto di asilo, né libertà di circolazione. Alcuni si rifiutarono e, immagino, morirono in carcere. Io ero un’ameba, potevano fare di me quello che volevano, non ero più un uomo».

Ambra mi mise una mano sulla spalla, solo in quel momento notai il suo sguardo turbato.

«Sembra incredibile, eh? Già, incredibilmente ingiusto, dannatamente ingiustificato» dissi.

Del resto, il senso di onnipotenza che si ricava dall’usare violenza non esige ragioni. È inutile cercare di darsene conto. Quella gratuita ferocia andava al di là di ogni possibile comprensione. Violenza è dominio e questo basta. Io ero semplicemente una delle infinite vittime di questa violenza che rinvigorisce i più forti, una delle tante che sempre ci sono state e sempre ci saranno.

Ambra non sapeva che dire, forse pensava che ero fuori di senno, del resto come poteva capire? Mi sentivo rassegnato, sfiduciato verso il mondo e verso il prossimo. Ero solo e mi mancavano le energie per iniziare una nuova vita con tutta quella pesantezza addosso. Non facevo che ripetermi che se un Dio c’era, aveva decisamente preferito guardare altrove. Con la coda dell’occhio vidi due agenti arrivare.

«Ma l’uomo? Quello che hanno portato qui insieme a me?» mi affrettai a chiedere alla ragazza.

«Ha rischiato grosso. Chi intende ospitare in casa propria un cittadino immigrato extracomunitario deve denunciare alla polizia l’identità dell’ospite e gli estremi del suo documento di identità. L’omissione di questa comunicazione comporta una sanzione amministrativa del pagamento di una somma che mi sembra vada dai 160 ai 1.100 euro. Insomma non proprio poco!» rispose Ambra.

Ambra si girò di scatto. Sentii la voce del commissario: «Seguitemi» ci intimò e istintivamente un brivido mi corse lungo la schiena. Se era vero che l’uomo che mi aveva aiutato era al sicuro, la polizia italiana non doveva essere poi così efferata, ma il mio corpo precedette la mia ragione e non riuscii a non associare Polizia e violenza.

Mi fecero entrare in una stanzetta caotica e polverosa. C’erano fascicoli e cartelline ovunque. Io mi sedetti davanti ad una scrivania, con un computer ronzante che mi ventilava nei piedi e uno schermo appoggiato su tre quattro libri, per rialzarlo un po’. Al lato della scrivania, su un tavolino più piccolo, era appoggiata una vecchia macchina da scrivere impolverata, da tempo inutilizzata. Alle spalle del commissario un piccolo crocifisso mi guardava negli occhi.

«Buongiorno. Innanzitutto, mi dica nome e cognome» mi ordinò brusco.

«Merhawi Berthe» risposi senza aspettare la traduzione.

«Bene Merhawi, cosa l’ha portata fino a Schiavonea?»

Domanda difficile, in effetti. Un turbinio di immagini si affastellò nella mia mente: l’esercito, le percosse, i lavori forzati, i corpi caduti dai camion sovraccarichi nel deserto, il carcere, le violenze, la fame, l’estenuante viaggio in mare. A raccontarlo oggi non sembra neanche vero. Come rispondere? Come spiegare? Che poi, le difficoltà, le paure e gli orrori del viaggio avevano reso lontana la foga e la rabbia che mi avevano spinto a fuggire dal regime di Afewerki. La situazione ad Asmara era terribile, ma un viaggio come quello era qualcosa che ti spezzava, ti schiacciava nel profondo. Come potevo fargli arrivare tutto questo? Sentivo il peso di quelle immagini e le parole facevano difficoltà ad uscire.

«Vengo dall’Eritrea e voglio chiedere asilo politico» fu l’unica cosa che la necessità di una tregua, di un minimo di serenità mi portò a dire.

«Dunque Merhawi, dovrai compilare questo modulo che ci consentirà di valutare la tua domanda. Hai un documento di identità?» La mediazione di Ambra e il suo tigrino dal goffo accento italiano mi davano una certa tranquillità.

«Ecco, veramente un documento di identità io non lo ho. È impossibile avere un passaporto prima dei sessant’anni in Eritrea. A diciassette anni tutti noi, ragazzi e ragazze, veniamo reclutati per il servizio militare che, ufficialmente, dovrebbe durare diciotto mesi, ma in realtà è a tempo indeterminato. Non possiamo uscire dal Paese. Se lo fai e ti trovano, vieni fucilato. Se alla polizia giunge notizia della tua fuga, è la tua famiglia a pagarne le conseguenze. È così che funziona: se un individuo commette un reato, ciascun familiare può essere punito. La dittatura non lascia alcuna libertà. Quindi ecco, no, il passaporto non ce l’ho».

«Va bene, non importa. Data di nascita?» mi chiede Ambra, leggendo il modulo C3.

«19 marzo 1988. Ho ventisette anni».

«Appartenenza etnica?»

«Tigrina, per fortuna. Dico per fortuna perché da noi alcune minoranze sono perseguitate. Ad una famiglia kunama che abitava non lontano da casa mia hanno espropriato le terre esclusivamente a causa dell’appartenenza etnica. In generale, i Kunama e gli Afar subiscono discriminazioni di varia natura».

«Religione?» proseguì.

«Cattolica. Anche in questo caso devo ritenermi fortunato. Molte religioni sono perseguitate: negli anni Novanta erano i musulmani ad essere purgati, adesso sono i cristiani evangelici, ma, insomma, nel mirino rientra chiunque non si allinei ai diktat del regime».

«Che titoli di studio hai, Merhawi? Avevi un lavoro?» Ambra mi guardava affabile, mentre gli algidi occhi del commissario mi fissavano annoiati: pareva assistere ad uno spettacolo che non gli interessava, che quasi lo infastidiva. Mi ripetei che i dettagli delle realtà che ho attraversato potevano aiutare a ricostruirmi un futuro e continuai a rispondere.

«Mentre facevo il quinto anno di scuola superiore ho dovuto fare il servizio militare. Lì vigeva la politica del terrore. La paura doveva impedire il pensiero, le botte dovevano rendere i ragazzi acquiescenti, i lavori forzati, la fatica e gli stenti dovevano ostruire ogni spazio per il sorgere di un pensiero critico. Erano molti gli studenti che come me durante gli studi erano sottoposti a tutto questo e infatti siamo stati pochissimi a riuscire a prendere la maturità. Questo mi ha concesso di tornare a casa per frequentare l’università. Presto dovetti rendermi conto che sarebbe stato ben più difficile di quanto credessi: Isseias Afewerki, il nostro dittatore, aveva chiuso le università ad Asmara, per cui non restavano che alcuni collegi fuori città. Ma, in fondo, cosa cambiava dai collegi militari? Anche lì eravamo continuamente sottoposti ai controlli, dovevamo fare ginnastica mattutina e spesso ci costringevano a svolgere lavori forzati. Io, per esempio, sono stato portato vicino al Sudan a costruire una diga. Come potevo studiare?»

«Per favore Merhawi, sia più succinto: si attenga alle semplici domande che le poniamo» disse il commissario.

Guardai Ambra e le dissi: «Ma come? Credevo di dover spiegare tutto. Quello che ho da dire è importante. Vi racconto come si vive nel mio Paese. Come potete sennò valutare la mia situazione?»

«Mi rincresce dirglielo» disse prontamente il commissario «ma dobbiamo occuparci di tanti e tanti casi come il suo. Non c’è tempo per tutto. Vada avanti, prego».

Sapevo bene di non essere il solo ad aver vissuto tutto ciò. Ma era possibile che la mia storia venisse ridotta solo a un mero documento? A una firma? A un sì o a un no? Ripensare a queste esperienze non era facile. Tutt’altro. Era come il vaso di Pandora, una volta aperto, tutti i mali uscivano irrefrenabilmente. Era strano: era come se le immagini, i ricordi mi venissero incontro, mi sbattessero in faccia e io non riuscissi a far nulla per fermarli, per tenerli al loro posto. E così non potei fare a meno di ricordare i campi di lavoro e la fatica massacrante che ci accompagnava. Una fatica che ai tempi ancora non era riuscita a sopire la rabbia che quel regime mi faceva bruciare dentro. Le ragazze che erano con me al campo rischiavano costantemente di entrare nei giri di prostituzione e per sottrarsene la loro facoltà di scegliere era limitata al farsi mettere incinta o al farsi sposare. È questa la libertà? Avevo l’impressione che lì potessimo solo subire la vita, mai agirla. Sentivo fortemente l’ingiustizia delle condizioni in cui eravamo costretti a vivere, mi dicevo che ci doveva pur essere qualcosa che rendeva la vita umana degna di essere vissuta. E io volevo poterne disporre. Fondamentalmente, desideravo essere libero. Nessun concetto astruso, no, io mi riferivo a libertà molto basilari, elementari. Eppure dai noi persino quelle sono negate, niente libertà civili e di espressione: prigionieri politici, niente stampa d’opposizione, arresti arbitrari ed esecuzioni sommarie. Perché accettare tutto questo, mi chiedevo. Gli studi erano poco più di un servizio militare bis. La mia tenacia nel proseguirli era venuta meno perché non vedevo sbocchi. Non potevo scegliere cosa fare, era il regime ad impormelo. Questa ingiustizia a me risultava soffocante, sfibrante. Ecco perché decisi di fuggire.

«Scusi, ma cosa sta facendo? Noi stiamo qui ad aspettare le sue risposte. Può degnarci della sua attenzione gentilmente? Allora, ricapitolando: ha avuto il diploma delle scuole superiori, ma non ha finito l’università. Bene, andiamo avanti» disse sempre più scontroso il commissario.

«Come hai fatto a fuggire? Ci servirebbe qualche informazione sulle modalità con cui hai lasciato l’Eritrea». Nello sguardo di Ambra notai una discreta compassione che mi infastidiva, ma proseguii.

«Nessuno dei miei amici inizialmente voleva fuggire. Come vi ho già detto, se i soldati ti vedono attraversare la frontiera illegalmente — una via legale non esiste — ti sparano senza indugio; è la legge ad imporglielo. Basta solo che i tuoi intenti vengano scoperti e finisci in prigione. Avevamo pochi soldi e molta paura, ma in capo a qualche mese sono riuscito a convincerli e, approfittando di una notte molto piovosa, siamo scappati. I miei genitori non sapevano nulla: rischiavo la vita e loro non avrebbero mai acconsentito. Mio padre ha dovuto pagare una multa di 2.500 dollari quando le autorità hanno scoperto della mia fuga. Grazie al cielo alla frontiera nessuno ci ha visti e siamo riusciti a raggiungere il Tigrai, nel nord dell’Etiopia. Lì i militari etiopi ci hanno portato in un campo profughi, ma volevamo proseguire quindi, appena siamo riusciti a metterci in contatto con un trafficante, al prezzo di 400 dollari siamo arrivati nel Sud Sudan».

«Dal Sudan, come hai proseguito? Le autorità eritree ti hanno ricercato? Hai subito minacce, discriminazioni durante il tragitto?»

«Il Sudan sicuramente non era un Paese sicuro perché spesso il governo sudanese, di concerto con quello eritreo, organizzava delle retate per rimpatriare i migranti. Nel campo profughi ci avevano detto che lì il percorso è ancora più rischioso a causa dei Rashaida, nomadi che si arricchiscono sequestrando e chiedendo ingenti riscatti per rilasciare i migranti. Il viaggio si fece più complicato da quel momento in poi: i trafficanti sudanesi erano molto organizzati — sembrava esserci un vero è proprio business —, i costi erano molto elevati e la violenza inaudita. Il loro obiettivo, chiaramente, erano i soldi: delle nostre vite non gli importava nulla. Quindi ci caricavano in numero smisurato su container o camion che avevano solo piccolissime grate che permettevano all’aria di entrare. Chi faceva rimostranze veniva picchiato brutalmente. Alle botte, in realtà, non sfuggiva nessuno, non ci voleva niente per far scattare la loro violenza spietata».

Ovviamente il commissario mi interruppe, aveva tutta l’aria di provarci gusto. Sembrava essersi innescato un meccanismo automatico: lui che mi bloccava irritato e le immagini del viaggio che spingevano per mostrarsi comunque. Erano ricordi che facevano male, erano quel tipo di ricordi che normalmente la mente sotterra. Ma ora non potevo evitarli e non smettevo di chiedermi, forse ingenuamente, come potevano i trafficanti fare tutto questo. Perché lo facevano? Noi non avevamo colpe, li pagavamo, anche lautamente. Cosa li muoveva a compiere quei feroci soprusi? E noi, noi perché meritavamo di dover sentire le urla delle donne senza poter far nulla? Era qualcosa che ti logorava dentro.

Il commissario sbuffava. Cominciavo a innervosirmi anch’io. Sì, certo, ormai avevo imparato a non cercare più empatia negli altri, tanto più se si trattava di polizia. Ma ecco, non faceva piacere vedere che la mia storia, per me una vera via crucis, a lui non interessava affatto.

Notando la situazione un po’ tesa, Ambra mi incalzò: «Come hai fatto ad arrivare in Italia?»

«Il viaggio è stato infinito. Un tunnel di cui non vedevo più la fine. Io in Italia non ci volevo neanche venire: i racconti di mio nonno mi avevano trasmesso una pessima immagine degli italiani». Non osai raccontarlo, ma mio nonno, durante la colonizzazione italiana dell’Eritrea, era stato portato nel carcere di Nocra, il più grande campo di prigionia della vecchia Africa Orientale Italiana. I suoi racconti di detenuti coperti di piaghe e di insetti, che morivano lentamente di fame, scorbuto o di altre malattie senza nessuna cura mi avevano molto scioccato.

Il commissario tossì: «Merhawi, prosegua per favore».

«Il vero calvario è stato in Libia. I trafficanti sudanesi ci portarono fino a Kufra, in Cirenaica. Fui fortunato: una volta uscito dalla prigione di Al Bakr, i soldati mi misero a lavorare per loro in un accampamento e siccome sapevo il tigrino e un po’ di arabo mi ritennero utile per le traduzioni. Mi finsi mussulmano, dicevo di chiamarmi Ibrahim. Riuscii a scappare, durante una visita alla moschea, di venerdì. Sono rimasto nascosto tutto il sabato, finché non ho incontrato dei pastori sudanesi che mi hanno aiutato a raggiungere Tripoli. Ho contattato i miei genitori. Mi sono fatto spedire i soldi necessari al viaggio in mare, i risparmi di una vita. Se da quel viaggio non ne uscivo vivo, probabilmente anche la mia famiglia non avrebbe più saputo come andare avanti. Erano ormai anni che quell’inferno si protraeva, che succhiava vita a me e ai miei familiari, ora dovevo farcela per me e per loro. Siamo partiti tutti stipati in una vecchia barca, qualcuno provò a comunicare allo scafista che la gente nella stiva stava molto male e rischiava di morire, ma a lui non importava nulla e tirava dritto. Come sapete, la barca si è rotta a largo delle vostre coste. Quando mi hanno salvato ero quasi esanime. Quel signore ha avuto pietà di me e per la prima volta da tanto tempo ho ricevuto delle cure». Tirai un sospiro. Fine della storia.

«Bene, direi che le informazioni necessarie le abbiamo, ne abbiamo anche troppe. Bisogna attendere la decisione finale della Commissione territoriale, ma posso già dirle che lo status di rifugiato politico non credo le spetti. Non mi pare che lei sia perseguitato per razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale o opinione politica. Niente di tutto questo. Quindi non rientra nella categoria».

Un’ora di memorie e spiegazioni… per dirmi che “non rientro nella categoria?”

«Commissario, mi sembra evidente che la protezione sussidiaria gli spetti di diritto! Se tornasse nel suo Paese correrebbe realmente il rischio di essere ucciso» intervenne preoccupata Ambra. Benedetta Ambra.

«Non sta a lei sindacare, ma sì, ha ragione. Se mi avesse lasciato il tempo ci sarei arrivato. Attenderemo la decisione finale, sappia però che la protezione sussidiaria può cessare quando vengono meno le circostanze che ne hanno determinato il riconoscimento. Ma questo si vedrà in seguito. Guardi, questa è la ricevuta della consegna del modulo C3, è importante perché costituisce il permesso di soggiorno provvisorio. Mi raccomando, ci stia attento. Prenda questi opuscoli, ecco, li abbiamo anche in tigrino: qui troverà informazioni sui diritti e doveri dei richiedenti, sulle prestazioni sanitarie, il recapito dell’UNHCR e delle principali organizzazioni di tutela. Ci sono anche informazioni sulle condizioni di accoglienza e sui criteri di valutazione della domanda di protezione internazionale».

Francamente non avevo chiaro ciò che la “protezione sussidiaria” comportasse, ma era evidente che il commissario non intendeva perdere ulteriore tempo. Avevo un permesso provvisorio, questo per ora mi bastava.

A quel punto mi fecero alzare e mi tinsero le mani e le punte delle dita con dell’inchiostro nero, per poi imprimerne le impronte su dei fogli di carta. L’ufficiale incaricato prendeva ogni dito, uno alla volta, con delicatezza ma decisione, e ne premeva la punta sulla carta, all’interno preciso di un quadrato delimitato dell’apposito modulo. Io mantenevo il dito diritto, rigido, mentre il segnalatore lo puntava e dirigeva verso il foglio impugnandolo come un bastoncino, un sigillo, un marchio. Il dito sporco di inchiostro, nel momento in cui premeva la carta e lasciava l’impronta, non era più il mio dito, non era più una precisa parte di me e del mio corpo, anzi non era più nemmeno un dito, quanto piuttosto una cosa indipendente, forse l’impronta stessa che lasciava, il marchio che serviva per identificarmi, per darmi un nome, un cognome, un’età, e quindi di conseguenza un provvedimento, un ordine, un destino.

***

Per tornare Salvatore fece un’altra strada, non la solita. Non poteva fare la stessa strada di sempre, come se niente fosse accaduto. Qualcosa era successo e, o si decideva a lasciarlo lì, scuotendoselo di dosso, o avrebbe cambiato strada, e nella strada, avrebbe cambiato tutto. Cambiare, a Salvatore, in fondo, non era mai piaciuto.

Si fermò vicino la piazza, passò davanti la chiesa, fece per prendere la salita che portava ai campi, ma lasciò la macchina lì e fece l’ultimo tratto a piedi per sentire il mare e placare il mal di testa che si era fatto intenso. Stanco, salì i tre gradini di casa assorto com’era nei suoi pensieri, suonò al campanello dimenticando di avere le chiavi in tasca. Di solito infilava le chiavi nella serratura, apriva la porta, si sfilava il cappotto e tutto veniva da sé. Se suoniamo abbiamo bisogno di essere accolti. Le luci erano accese come se ci fosse stata gente. Probabilmente, pensò, saranno passate le mie sorelle con mezza famiglia al seguito. E già si vedeva la scena della sorella in lacrime che con lamento avrebbe espresso il suo disaccordo e dell’altra che avrebbe gridato, ma l’avrebbe guardato con comprensione. La moglie ci mise un po’ ad aprire, prima si affacciò alla finestra, temendo chissà cosa, come se la scena della mattina si potesse ripetere. Appena lo vide spalancò la porta, si lasciò sfuggire una benedizione che trattenne per metà, l’altra la racchiuse nell’abbraccio.

«Cos’è successo Salvatò? Ho fatto chiamare da Luigi in Questura a suo cognato per avere notizie. Io non sapevo che dire alle persone che sono passate. Non sapevo se continuare a mantenere il segreto, se fare finta, se farli entrare… E se non tornavi più? Se ti arrestavano? Per che cosa poi? Cosa si deve fare per salvare una persona? È la lotta tua ma è diventata anche la mia. Mo’ sei qua e sei muto, e io lo so che non mi parlerai, e che ti pesa tutto, come un macigno… Magari domani. Sì, domani parliamo». Parlava a frasi interrotte, tenendogli la mano, stringendola, alzandosi, posando un piatto con una frittata di pasta e un po’ di cicoria e peperoncino. Cenarono insieme in silenzio, alzarono gli occhi e si scoprirono soli.

Salvatore riprese a lavorare la mattina dopo. Una volta vestito, si sedette sul letto. La moglie si svegliò: «Statti a letto Salvatò, riposati» disse.

Lui bofonchiò qualcosa sulla giornata buona che doveva esserci. Prima di alzarsi le raccontò del giorno prima, dell’interrogatorio, della sanzione, della somma pagata, degli sguardi indifferenti, dei modi bruschi. «Abbiamo rischiato, Silvà! E per cosa? Delle volte me lo chiedevo, quando lui era ancora qua. Ma noi che c’entriamo con ’sta gente qua? Mica lo so, io». Io so pescare, pensava, io raccolgo quello che il mare mi dà.

Si mise un cappello di lana, prese le ultime cose e uscì, lasciando la moglie intorpidita dal sonno e da quella sincerità tagliente. Scese per la strada dove aveva lasciato la macchina, la mise in moto e guidò fino al porto. Non si era pentito, l’avrebbe rifatto cento volte. Ma tutto appariva inutile ora, avrebbe potuto fare di più? Se l’era chiesto ogni giorno della sua vita da quando aveva dieci anni. E ora la domanda tornava più forte. E nonostante la frustrazione, nel sistemare le reti che in quei giorni aveva trascurato, si sentì consolato.

Merhawi si stava sbucciando un’arancia che gli avevano dato con il pasto. L’odore gli piaceva, non lo lavava via come faceva con tutto il resto. La ragazza che gli aveva sorriso porgendogli il piatto non aveva possibilità di competere con Silvana. Quando Silvana finiva di cucinare e li chiamava a tavola aveva un che di familiare che rendeva tutto buono. Lo accoglieva e lo respingeva con lo sguardo, e quando voleva essere più esplicita, parlava come se lui la capisse e le andava bene così.

Dopo i primi giorni sentiva il bisogno di uscire, il bisogno di libertà di cui ti senti privato comunque in questi casi. Parlò con un po’ di ragazzi che erano andati verso il paese altre volte. Prese il maglione pesante che gli aveva dato Salvatore la prima sera e raggiunse la strada principale. Ognuno sapeva il fatto suo, ognuno era sopravvissuto al viaggio e lottava per sopravvivere e sopravvivere ancora. Respirava aria fresca, aria del mare, quel mare che o ti uccide o ti salva, al quale si era affidato, inerme. Era mattina presto. Avrebbe ritrovato Salvatore?

I giorni scorrevano uguali. La quotidianità era tornata per Salvatore. Una quotidianità rinnovata, quell’incontro in un modo o nell’altro li aveva presi e scossi nelle loro salde consapevolezze. Notizie sparse e poco veritiere arrivavano all’orecchio di Salvatore. La televisione non l’accendeva quasi più, leggeva un po’ il giornale al bar e saltava volentieri i commenti mattutini del barista. Con qualcuno aveva parlato, con altri manteneva la distanza. A volte aveva provato ad andare vicino al centro di accoglienza dove si sapeva che stavano parte delle persone salvate, poi, un po’ per paura di non trovarlo, un po’ per evitare il suo sguardo d’abbandono, era tornato indietro rinunciando all’idea.

Era di ritorno da una mattinata impegnativa, aveva preso buon pesce che poi al mercato gli avrebbero pagato una miseria. Ma era soddisfatto comunque. Il mare si era calmato per dispetto ed era così bello. Era stata una fatica stargli appresso. Tutto quel da farsi gli aveva fatto prendere calore che già stava perdendo di nuovo. Attraccato il peschereccio, si fece aiutare dai pescatori che conosceva, a trasportare i secchi con tutte le cassette nel cofano della macchina, poco sopra la spiaggia. Si fermò a ripulire le reti e si sentì osservato. Continuò un altro po’ e quello sguardo insistette nel voler attirare tutta la sua attenzione.

«Salvatore» si sentì dire, in un modo nuovo, con delicatezza, sforzo e naturalezza insieme. Quasi non si riconosceva più in questo nome, per come l’aveva udito. Alzò gli occhi e riconobbe lui, e in lui, se stesso. Si sentì salvato.

1 «Uscite, ci sono persone in mare. Affogano, affogano, aiutiamoli!»

2 «Andiamo verso il mare, svelto».

3 «Uscite da lì! Pazze!»

4 Sali, scendi, tira, alza.