Il figlio del Haram – Gruppo BLESK (Lolita Timofeeva, Oussama Mansour, Valentina Bolzonella)

il figlio del haramEvaristo si svegliò presto dopo una notte di tormenti per Lucia, che non era ancora rientrata. Accarezzò con lo sguardo la gatta accoccolata sul cuscino e uscì dalla camera da letto con la speranza di trovarla in casa. Ma la porta spalancata della stanza accanto riecheggiava le parole della moglie: «Lucia è maggiorenne, non c’è nulla di male se ogni tanto rimane fuori con gli amici».

«Nulla di male» si disse. «Facile dare i consigli da lontano, limitandosi a qualche visita ogni tanto, a qualche telefonata, ai bonifici alla bambina».

Controllò che il figlio Gabriele fosse ancora nella propria camera e scese al piano di sotto con la fronte corrucciata. Attraversò il salotto, diretto verso la cucina a vista, mise sul fuoco la caffettiera e quando si girò intento ad apparecchiare la tavola per la colazione, rimase impallato con il vassoio in mano. Lì in penombra, sul divano letto, aperto per la notte, c’erano due persone sotto la coperta stropicciata. Riconobbe gli anfibi di Lucia – la vernice nera rifletteva i primi raggi di sole. E quei capelli blu non potevano essere che i suoi. C’era, però, qualcuno con lei, che la teneva abbracciata, ma non riusciva a vederne il viso. Scorse per terra un paio di scarpe logore, da uomo, e un giaccone stinto e sporco sistemato sullo schienale di una poltrona poco più in là; un odore di acredine impregnava, leggero, tutta la stanza.

Evaristo tornò su in silenzio, cercando di non svegliare la coppia, e si chiuse nel bagno che confinava con la camera. Lo specchio gli restituì l’immagine di un volto stanco.

«E cosa facciamo adesso?» si chiese.

«Niente» replicò al riflesso. «Sei un uomo moderno, con la mentalità aperta, quindi comportati di conseguenza».

Cercò di contenersi. Era inquieto ma non lo avrebbe dato a vedere mai. Andò a svegliare Gabriele; appena usciti dalla camera del ragazzo, sentirono i passi sulla scala. Lucia irruppe raggiante: «Ho qualcuno da presentarvi. È una persona speciale davvero, voglio che la conosciate» annunciò. «Vi aspetto giù. Spero che non siate arrabbiati perché abbiamo dormito nel salotto… non lo siete, vero? Ha sentito il profumo del caffè svegliandosi, piace anche a lui. Grazie».

E con questo Lucia rifece le scale per scendere, senza aspettarsi una risposta. Gabriele sentenziò al pianerottolo vuoto: «Vai prima tu, papà».

E i due s’incrociarono con lo sguardo alla ricerca di quel coraggio che da soli non trovavano. Ma Evaristo appariva esattamente così come si sforzava di essere: l’uomo d’un pezzo. Calmo, posato e sorridente.

Il salotto era riordinato, la tavola apparecchiata, e Lucia serena annunciò: «Si sta facendo la doccia».

Appena si misero tutti intorno al tavolo, la porta del bagno si aprì. Evaristo guardava ancora Gabriele prima di spostare l’attenzione sull’oggetto dello stupore del figlio. Un ragazzo alto lo fissava, mentre entrava in cucina assieme alle ultime folate di vapore. Andava verso di loro con i calzini bucati che lasciavano l’impronta umida sul pavimento. Una felpa vistosamente più grande di lui suggeriva che non doveva aversela comprata, e i jeans avevano il bordo inferiore stracciato da quanto doveva averci camminato sopra. Con lui c’era ancora quell’odore acre, di sporco. Il ragazzo era nero.

«Papà, Gabriele: questo è Skander».

Seguì un silenzio d’imbarazzo, ed Evaristo lo infarciva con mille pensieri.

***

Evaristo non si dava pace. Cercava di capire cosa fosse accaduto per cambiare così la quiete di una famiglia perfetta, che credeva fosse la sua. E soprattutto, ne cercava il perché. Forse non avrebbe dovuto incoraggiare la moglie a firmare quel contratto di lavoro, tre anni prima, che l’avrebbe portata a vivere a Milano. No, la felicità di Maida era sempre stata al primo posto. Finalmente la vedeva una donna realizzata. O forse era stata la passione per il volontariato, che Evaristo coltivava tre pomeriggi alla settimana alla scuola di Malik. Insegnava ai profughi stranieri l’italiano. Forse la vicinanza a quei ragazzi aveva fatto pensare a Lucia che potevano accogliere a casa proprio tutti, disagiati e non?

Era da tempo che Evaristo s’ingannava. Non aveva dato grande importanza alle segnalazioni della professoressa, preoccupata che Lucia qualche volta marinava il liceo – d’altronde, chi non l’aveva fatto a quell’età. Il look della figlia mutò e l’uomo si sforzò di accettare la sua testa rasata a metà, quei pantaloni a cavallo basso e i colori tetri di quelle assurde maglie stracciate. Un giorno Lucia rincasò con la lingua gonfia per il buco del piercing.

«Ma che ti sei fatta?!» eruppe Gabriele dal divano.

«Conciata così, non troverai mai un lavoro serio!» traboccò Evaristo.

«E chi se ne frega. Non m’interessano i soldi!» sbottò Lucia articolando le parole con fatica. «Non ho nessuna intenzione di perdere la mia vita con il pensiero fisso di accumulare i soldi, soldi, soldi… come ha fatto la mamma».

«L’ha fatto per voi, Lucia» vociò Evaristo incredulo.

«Beh, io non lo farò! Ho altri valori nella vita».

Gabriele si alzò dal divano e si diresse verso la scala per salire in camera: « È facile fare i discorsi con un tetto sulla testa e il mangiare sulla tavola» buttò lì.

Fu allora che Evaristo realizzò che sua figlia era cambiata. Drasticamente. Tuttavia le pause d’incertezza con le quali la ragazza intervallava la spavalderia, lasciarono una debole speranza nell’uomo. Qualcosa gli suggeriva che i progetti della figlia non erano ben definiti. “Ha il diritto di sbagliare” pensò. “Le serve per imparare” e si promise di indagare sulle frequentazioni di Lucia. Ma con molta discrezione.

***

Lucia faticava a svegliarsi quella mattina. Stava seduta per terra con la schiena al muro, piena di freddo polare perché era uscita di casa con una giacca a vento troppo leggera. Aveva dormito con la testa appoggiata sulla parete del mobile accanto a lei sulla destra, e adesso le faceva male il collo. Senza fare rumore, si alzò sollevandosi sui palmi delle mani. Il pavimento era lurido. Sentiva odore di urina, di cane bagnato. Faceva vomitare.

Erano diversi mesi che Lucia si svegliava in mezzo alla puzza, e cercava di farci l’abitudine. Aveva cominciato a boicottare la famiglia. Ma i ricordi dei profumi e del calore di casa erano difficili da estirpare mentre si alzava la mattina in posti sconosciuti. Dove non sapeva nemmeno in che modo ci fosse arrivata, e tuttavia là doveva stare, ed erano quelli i posti giusti in cui nascondersi. In cui potersi dimenticare di se stessa.

Quello di oggi aveva gli interni scuri, le finestre senza tende alte e strette. Inciampò sulla caviglia di qualcuno, quasi pestò il polpaccio di Larissa che stava accovacciata per terra su un materasso consumato. Aprì la porta con gli occhi ancora semichiusi, scivolò giù dalle scale, e in pochi secondi era in strada. Il quartiere San Donato era pessimo prima dell’alba. Sarà stato perché era il posto più buio che conosceva, freddo sempre. Lucia si tirò su il bavero e si chiuse nella giacca. S’incamminò. Le gambe le facevano male; percorreva le vie senza meta.

Anche oggi avrebbe visto l’alba da sola. Avanzava a passo svelto. Ogni tanto incrociava lo sguardo di qualche mattiniero, che pareva appena sceso dal letto per raggiungere il lavoro. La vita di tutti, quella normale, le sembrava la vita di alieni che non la capivano per niente. Non capivano nulla delle sofferenze che questa offriva. Riusciva a vedere solo tristezza, in quella Bologna con le sue regole che ancora stava studiando. E doveva decidere se le andavano bene oppure no.

Vagava, e pensava a come l’alito le odorasse di alcol. Ed era certa che anche stasera sarebbe tornata sfinita a casa, per firmare una tregua da questa vita che la attraeva e la disgustava nello stesso tempo.

***

È difficile vivere per sei mesi senza potersi lavare. E dopo quella prima attesa volta, la doccia per Skander aveva lo stesso sapore dell’incontro con lei. Una giornata di sole, non poteva essere altrimenti. La vide in piazza Verdi mentre i suoi compagni le facevano fumare la roba con la carta stagnola. Cominciò a vedere la ragazza anche la mattina, spesso già fatta. Un fiore che stava appassendo prima del tempo.

Quella sera d’inverno inoltrato, scorse i ragazzi che bazzicavano in Verdi più nervosi del solito. Si trattava di cocaina probabilmente, di quella buona, e lei era ubriaca oltre che fatta. La trascinarono in un vicolo, e sotto un portico, in tre, stavano per spogliarla. Skander cercava quella figura esile, e d’improvviso si accorse che non c’era più. L’avevano già fatto, sempre loro tre, con ragazze inermi, in cerca di un piacere effimero, cattivo. Il giovane usò il coltello, e la portò via tra le urla dei compagni, quei cani rabbiosi.

«Dove abiti?» le chiese.

Accompagnò la ragazza in via Saragozza in un autobus semi deserto. Davanti al portone di legno massiccio, prima di entrare, non si dissero una parola e Lucia lo baciò.

Da quella sera cominciarono a vedersi spesso. Lucia lo portò in giro per Bologna – l’orto botanico, i Giardini Margherita, Villa Aldini – e Skander si stupiva della naturalezza con cui cambiava la propria indole, mentre era con lei. Passavano i pomeriggi così, su una panchina a prendere il sole. Parlando. Lucia lo faceva impratichire con l’italiano, fumavano un po’. Lei portava uno stereo e ascoltavano la musica.

«Perché sei fuggito da Tunisi?» curiosò la ragazza. «Che scuola hai fatto?»

«Il liceo non l’ho mai finito» le raccontò Skander. «Avevo solo voglia di scappare da una vita soffocante e senza nessuna prospettiva. Passavo le mie giornate a bighellonare da Ariana sino a a

Avenue Habib Bourghiba, in cerca di qualche occasione, qualche turista, un po’ di fumo o qualche birra».

«Ti saranno serviti molti soldi per attraversare il Mediterraneo» commentò Lucia.

«Vendendo il terreno di mio padre, morto di linfoma l’anno prima, riuscii a pagare lo scafista che mi portò a Lampedusa. Nel nostro viaggio andò tutto liscio, nessuno annegò, e fummo portati sulla penisola. Io scappai dal centro d’identificazione, tanto la sorveglianza era ridicola».

«E non avevi nessuno qui in Italia?» chiese la ragazza.

«Un nostro parente» rispose il giovane. «Passai prima dalla Puglia e poi salii a Roma, per cercare quel cugino, che però non poté aiutarmi. Aveva la moglie e un figlio, e quando arrivai nel ristorante dove lavorava, capii subito che non avrebbe aggiunto nessun aiuto in più al caffè che mi aveva offerto. E tu, che parenti hai?»

«I genitori che pensano solo al lavoro e ai soldi e un fratello che fa il santo ma sospetto fumi anche lui. Potresti avergli venduto della roba. Ma tu in che modo hai cominciato?»

«È stato durante due notti passate a Firenze. Conobbi alcuni dei ragazzi sciamannati che m’iniziarono alle vie dello spaccio. Poi mi trasferii a Bologna, senza casa, senza potermi lavare. Cominciai a vendere fumo e a riuscire a racimolare venti o trenta euro al giorno. Io stesso fumavo buona parte di ciò che vendevo. E poi arrivò l’eroina: rendeva meno dilatato quel tempo infinito in questa gabbia di pietra».

Skander fissava gli occhi di Lucia che se ne stava in silenzio senza badare ai suoi denti sporchi, al suo italiano stentato. Gli occhi di Lucia si perdevano nello sguardo del ragazzo straniero, bramosi di sapere perché erano finiti su quella panchina, in quella città, al sole, con la sensazione di conoscersi da tutta una vita.

«Quando siamo insieme» disse lui «ho l’impressione che il mondo sia fuori e noi siamo dentro in una bolla di cristallo. Sento il bisogno di proteggerti».

Lucia gli rispose con un sorriso: «Andiamo da me, ti faccio vedere la casa. Ora non c’è nessuno».

Attraversarono i portici fino a porta Saragozza. Mentre aprivano l’enorme portone del palazzo, Skander pensò che erano mesi che non entrava in qualcosa che potesse assomigliare ad una casa. Qualcosa da aprire con le chiavi. “Le chiavi del futuro” avrebbe detto sua nonna.

Di fianco al portone c’era la bottega di un pachistano. Fuori teneva un po’ di frutta.

La prima volta che varcò la soglia, Skander riconobbe subito l’odore di lei in quell’appartamento così bello e arredato con gusto. Il verde degli occhi di Lucia assomigliava al colore del lago di Esckel a Bizerte. Una bellezza rara ma contaminata da un dolore ancora acerbo e per nulla superato.

«Vieni, andiamo in camera mia» disse Lucia.

La stanza era tempestata di foto, di lei con degli amici; vi era una libreria piena, un grande armadio e un letto.

«Puoi fare la doccia se vuoi, il bagno è qui di fianco» aggiunse la ragazza.

Prima, Skander non aveva mai fatto l’amore. Aveva avuto qualche relazione con delle prostitute clienti dei suoi amici, che compravano la cocaina. Ragazze rumene, che consumavano un amplesso a pagamento, senza emozione; erano donne che la realtà aveva reso di pietra. Con Lucia invece, ogni volta, avrebbe voluto urlare parole d’amore.

«Elli fet met» le diceva. «Prima di conoscerti io non vivevo, ciò che è passato è morto. Ora siamo felici».

Felici lo erano davvero: bastava si addormentassero insieme, stretti l’uno all’altra, e fuori tutto si trasformava. Il rumore del traffico scemava, via Saragozza diventava un fiume silenzioso, e tutte le altre case erano i colli di Bologna. Immacolati.

«Salvami dalla strada dove sono incappato”» pareva dirle Skander, con gli occhi scuri, languidi. «Questa vita mi sembra una corsa senza traguardi. Il mio premio sei tu. Questo mi rende completo».

***

«È così buono, è l’uomo che sognavo da sempre. Lo amo davvero, papà».

Lucia era in piedi, ferma, sull’uscio della camera con gli occhi liquidi; scalza, e con il pigiama stropicciato.

«Ma sei ancora così giovane… Devi finire gli studi!» Evaristo si sentiva intenerito dall’aspetto infantile di lei, e nello stesso tempo impotente di fronte alla forza delle sue parole.

«Voglio che stia con me. In casa o fuori casa. Devi accettarlo!» Il tono indurito della ragazza fece capire al padre che non scherzava, e che nulla di tutto questo era un capriccio.

«Lucia, tu sai qualcosa di lui? Da dove viene, qual è la sua storia, che combina qui? Io ne vedo ogni giorno di tipi così. Entrano ed escono dal Centro e non sai più dove finiscono. Spacciano, sono clandestini che girano con il coltello, e vivono sulle spalle degli altri. Lucia, tu sai chi è questo qui?»

«Skander è un irregolare. Non ha un lavoro ancora, ma presto lo troverà. Te lo assicuro. Fidati».

«Lucia, quest’uomo è in casa nostra! Santo cielo!» la interruppe brusco Evaristo.

«Abbiamo anche qualche idea del tutto legale, papà. Se è questo che ti stai chiedendo, con quella faccia lì, come se avessi ancora cinque anni e ti stessi facendo le pezze. Credimi, per adesso, almeno per questa volta. Ti prego, papà».

Evaristo non riuscì ad aggiungere più nulla; la lasciò scendere le scale senza dire una parola, con l’immagine di quella piccola donna impressa nella mente. Era preoccupato davvero: Lucia s’era già allontanata una volta e non poteva rischiare che capitasse ancora; però nulla di quella faccenda gli piaceva. Corse nel bagnetto della camera per recuperare i vestiti del lavoro, e finì a scontrarsi con l’immagine di sé sullo specchio. Prese in mano il rasoio elettrico, ma senza nemmeno accenderlo, lo ripose sul ripiano con un gesto meccanico. ”Non era questo che desideravo per mia figlia” pensò, continuando a guardarsi.

Le parole di Lucia avevano inaugurato la nuova quotidianità di Evaristo. La mattina successiva uscì di casa prima del solito e s’incamminò verso la fermata per andare al liceo, dove insegnava. L’autobus era pieno e l’uomo si guadagnò un piccolo spazio accanto ai due emigrati. Uno di loro, con un movimento verticale ripetitivo, si strofinava i denti con un bastoncino di Siwak, incurante della gente intorno ed un altro parlava a voce alta al cellulare, emettendo i suoni duri gutturali ed “h” aspirati. C’era qualcosa in loro, nel loro modo di muoversi nei loro gesti, che lo disturbava, e finì a scrollare il capo scendendo dal bus per proseguire a piedi.

Scorse nella vetrina un’ombra scura e ingobbita. Si fermò, e anche l’ombra arrestò il passo. Evaristo aggiustò il giaccone e il suo doppio fece lo stesso gesto: “Quell’uomo con il volto irsuto e gli occhi infossati non sono io” pensò. “Sono lontano, distaccato, sono tutto il contrario di me. Non mi sento me stesso”. Evaristo aveva bisogno di tornare a riconoscersi: un padre ha comunque il dovere di stare vicino alla propria figlia.

Aspettò Lucia fino a tardi per dirle: «Portalo pure a vivere in casa. Preferisco averti sotto gli occhi, anziché stare sempre in pensiero. E dobbiamo trovare un modo per dirlo a tua madre».

I primi giorni in casa furono curiosi. Skander stupì tutti per l’abilità con la quale riuscì a montare da solo il nuovo letto matrimoniale, acquistato con i propri soldi e destinato alla camera di Lucia. Alla loro nuova camera.

«Tutto questo lo fa apposta per mostrarci che noi due non siamo capaci nemmeno a piantare un chiodo nel muro» confidò il padre a Gabriele.

«Sarebbe la pura verità, papà» ironizzò il ragazzo. «Però vedo che mia sorella ha ripreso il liceo. Skander l’accompagna in bicicletta ogni mattina e al pomeriggio la va a riprendere».

«Questo è vero. Ha lasciato anche quelle strane frequentazioni» commentò Evaristo «ma non riesco a liberarmi dal sospetto che Skander faccia tutto questo per circuirla: ha bisogno di sistemarsi. Spero solo che si mostri per quello che è veramente, prima che Lucia prenda qualche decisione seria».

«Dici che fa tutto questo per poterla sposare e prendersi i documenti?» chiese perplesso Gabriele.

Controllare la situazione era più forte di Evaristo. Una sera Skander attraversò il salotto, per prendere qualcosa nel frigo e tornare su.

«Vediamo se sono rimasti piatti da lavare» disse a voce alta Evaristo, per essere sentito. Aspettò che il ragazzo si allontanasse, allora si alzò dal divano e andò a controllare il frigorifero. Voleva guardare cosa era sparito dal frigo. «Uno yogurt e due banane» elencò «e vedremo le cifre delle prime bollette».

Ci mise pochissimo a pentirsi di questo gesto. La notte non chiuse occhio. Si aggirava tra la camera da letto e il bagno, fissando spesso la propria immagine nello specchio e dicendosi: “Ma che diavolo stai facendo, Evaristo?” Lui che si considerava un uomo moderno e delle grandi aperture, era arrivato a dei comportamenti che non avrebbe mai attribuito a se stesso. Si vergognò così tanto di quell’episodio che confessò tutto a Lucia, l’indomani: dei suoi controlli al frigorifero, dei suoi conti separati sulle bollette, della sua perenne diffidenza. Di ogni brutto pensiero che puntualmente gli nasceva nella mente e che non aveva mai avuto cura di nascondere, né di soffocare. Erano pensieri marci, che andavano estirpati. Skander non meritava tutto questo.

Il ragazzo, infatti, si era messo d’accordo con Imran, il verduraio sotto casa, e ogni mattina, compresa la domenica, gli dava una mano a sistemare le casse delle consegne in cambio di pochi soldi in nero. Anche se, in attesa di trovare un lavoro decente, continuava a spacciare.

«Non devo essere di peso alla tua famiglia» spiegò a Lucia. «Appena mi troverò un lavoro vero, smetterò. Andremo a vivere per conto nostro».

A Lucia brillavano gli occhi: «Non deludermi, ti prego. Sai che se lo scoprisse mio padre, sarebbe la fine» gli disse.

«È per tranquillizzare tuo padre che faccio il facchino nel negozio sotto casa. Ma con soli dieci euro al giorno non si va lontano».

Il verduraio Imran lo raccomandò poi alla pizzeria Pulcinella di San Lazzaro.

«Noi pachistani aiutiamo agli altri stranieri, anche se non sono del paese nostro» gli disse.

Skander partì entusiasta, ma tornò avvilito. Nella pizzeria lavoravano tutti tunisini come lui, che però non si dimostrarono solidali, perché Skander era un clandestino, figlio del Haram, inadeguato anche per il lavoro umile del facchino.

«Non ho un motorino per consegnare le pizze» si giustificò con Lucia «e nemmeno la patente».

«La prima cosa che farai, quando avrai i soldi, sarà prendere la patente».

«Voglio smettere con lo spaccio il prima possibile» rispose il ragazzo. «Non ce la faccio più».

Il giorno dopo Skander tornò da Imran. Sapeva che con lui poteva confidarsi davvero, e aveva un gran bisogno di sfogarsi. A fine giornata decisero di bersi insieme una birra, dunque il pachistano chiuse la porta del negozio e si sistemarono dietro al banco. Parlarono a lungo. Dei loro paesi, delle rispettive famiglie, della vita in Italia. Skander si rollò una canna e provò a offrirne una anche al suo compagno.

«Non ho bisogno di questa roba» gli rispose Imran. «Voglio avere la testa lucida».

Ma permise a Skander di fumare, perché intuiva lo stato d’animo dell’amico che non smetteva di esternare i pensieri malinconici.

«Io non gioco con bnet ennes» gli raccontava Skander. «Una ragazza non l’ho mai voluta, ma con Lucia, che ha visto luce nei miei occhi spenti dal fumo, non ho resistito. Così pulita. L’ho difesa una volta, e ora lei difende me».

«Sono davvero contento, amico, che hai incontrato questa ragazza e spero che vada tutto bene, e che ti trovi un lavoro onesto» disse Imran. «Deve essere la morte, l’ambiente dello spaccio».

«Stare in quel posto ad aspettare i clienti da una precisa sensazione: quella di stare in un recinto» spiegò Skander. «Chi decide le regole però non sei tu. Se ti comporti in un determinato modo, c’è un angolo giusto giusto per te. Puoi guardare i due muri che convergono nell’angolo. Come i pesci in un acquario, che cercano spazio, e nel mentre si dimenticano di essere in trappola».

«È un brutto mondo, amico» concluse Imran.

***

Gabriele sedeva alla scrivania della camera con le spalle alla porta, che la corrente d’aria della stanza aveva aperta per metà. Aveva grinder davanti a lui, e tirò fuori dal barattolo di vetro un paio di palline verdi di erba seccata. Il profumo dolciastro, un po’ aspro, uscì dal vasetto. Girò la testa dello sminuzzatore e guardò fuori dalla finestra; nel cortile interno del palazzo vedeva la vecchia del primo piano seduta per terra, tutta curva, che estirpava le erbacce. La gatta saltò sul tavolo ignorando il ragazzo, mentre lui si concentrava sulla sua preparazione.

Aveva venti minuti prima che il padre rientrasse – per preparare la porra, fumarsela, e cambiare aria alla camera. Un pizzico alla volta mise le pagliuzze di trito sulla cartina, ordinate in un’unica fila, lasciando il giusto spazio fra il serpentello di erba e tabacco. Per finire il lavoro certosino, inserì il filtro; poi passò la lingua sulla cartina e la incollò con la saliva. Ci mise quattro minuti esatti: aveva imparato a essere preciso nei gesti e nel metodo, per abbattere i tempi. Se il padre l’avesse visto sarebbe crollato sul pavimento. Ma non avrebbe mai potuto rinunciare all’unico momento di vera libertà della giornata.

Skander in quel momento entrò in camera di Lucia a cambiarsi, senza che Gabriele se ne accorgesse, e intanto riconobbe l’odore. Si era ormai allenato a distinguerlo, l’odore della roba buona da quella scadente. E quel profumo stavolta era troppo pungente; lo aveva già annusato, una notte al Pilastro, e gli aveva annunciato una scena pietosa di un tipo ubriaco finito a delirare sui sacchi della spazzatura dopo due tiri. Si sporse oltre lo stipite, mentre Gabriele faceva il secondo tiro.

Evaristo rientrò in anticipo senza avvisare nessuno. Aveva voglia di tornare e trovarci Lucia, che gli mancava terribilmente. Era sempre in giro con quello Skander un po’ così, un po’ troppo nero, troppo presente e attento, troppo capace di dare le risposte giuste a Lucia. In un modo che nemmeno lui, suo padre, aveva mai saputo fare. Voleva tornare a casa per abbracciare la figlia e dirle che poteva fare a meno di lui, di Skander, che non serviva, perché a casa poteva trovare tutto quello di cui aveva bisogno. Perché quando lui, Evaristo, non c’era, ci sarebbe stato Gabriele ad occuparsi di lei. Un sacco di parole che gli si impilavano nel cuore e gli uscivano dal petto. Mentre girava la chiave nella toppa, pensò da quali cominciare. Forse, solo da un “Ciao, sono tornato a casa prima oggi!”

Appena la porta si richiuse, Evaristo sentì un tonfo dal piano di sopra. Poi vide la gatta sfrecciare giù dalle scale. Mollò giù il giaccone e gridò: «Ehi ma chi c’è là? Lucia sei tu? Gabriele?»

Neanche tre secondi ed era salito; trovò là davanti a lui, piegata sul tappeto, la schiena di Skander. Era chino su Gabriele riverso sul pavimento, percosso da colpi di tosse forti e secchi, alternati a respiri striduli. Evaristo vide suo figlio che si dimenava sul parquet con gli occhi aperti, spalancati, ma che non vedevano nessuno, e Skander su di lui, con le mani che gli tiravano il bavero del maglione per alzarlo.

«Gabbo tirati su, cazzo, vedi che dopo stai meglio. Finiscila di fare scene. Adesso andiamo a fare un giro, a berci una birra fuori da qua. Guardami però, e ascoltami» disse Skander.

Evaristo non capiva niente e non voleva credere a quello che vedeva. La canna là vicino a Gabriele con la cenere sul tappeto, la puzza acre di erba, Skander che diceva idiozie.

«Ma che diavolo stai facendo, che cosa credi di fare con Gabriele che soffoca e tu gli dici di bere birra! Me lo vuoi ammazzare! Vattene via da lui!» intimò Evaristo.

Evaristo si buttò sul figlio, dal lato opposto a Skander: «Ma che robe gli hai dato da fumare» continuava a urlare. «Ti denuncio, sai! Bisogna chiamare l’ambulanza, santo cielo. Gabriele cos’hai?!»

«Spostati Evaristo. Sei nel posto sbagliato. Per favore».

«Sta’ zitto, te! Non mi dici che cosa devo fare col mio ragazzo! Sei un delinquente, ti faccio arrestare Skander! Mi hai portato via Lucia, l’hai plagiata, e adesso mi ammazzi il figlio con quelle schifezze di voi drogati. Me lo ammazzi in casa mia! Mollalo, non toccarlo più, sta’ lontano dalla nostra famiglia! Te e tutti voialtri, gentaglia inutile!»

Skander continuava a tenere la testa di Gabriele che si stava riprendendo – l’unica cosa che, ora, gl’importasse davvero. Evaristo si era fatto in là, cedendo sul pavimento, schiacciando la schiena contro il muro. Il peso delle sue parole lo aveva trascinato a terra. Non credeva che tutta quella rabbia e quei cattivi pensieri gli appartenessero. Con le gambe, si spingeva sempre di più verso la parete, come se volesse sparire nell’intonaco. Skander aiutò Gabbo ad alzarsi, piano, tenendolo per l’avambraccio, dandogli stabilità ed equilibrio: «Evaristo, noi usciamo. Porto Gabriele a camminare qui fuori. Ha bisogno di aria pulita, di distrarsi, di parlare e pensare ad altro, così non rischia più di farsi prendere dal panico. Te lo dico perché così sai cosa fare, se dovesse ricapitare».

«Perché mi dici queste stupidaggini?» s’infuriò Evaristo.

«Dalle cose che ci sono sopra la sua scrivania, credo fumi da tanto. Io non gli ho dato niente di niente, ma puoi fare quello che ti pare, puoi chiamare la polizia. Tanto arrivano, vedono come stanno le cose e allora in galera ci finisce lui, non io».

Skander passò una mano attorno alla vita di Gabbo, e insieme scesero le scale. Pochi minuti dopo uscirono nel cortile interno del palazzo, parlavano del Bologna e della Fortitudo. Della ragazza di Gabriele, che stava ad un convegno a Pescara. E poi della gatta, della vicina e di quante volte al giorno faceva giardinaggio. Passeggiavano in circolo, seguendo i contorni dell’aiuola. Ogni tanto Gabriele rideva pure. Allora Evaristo poteva sentirlo, accovacciato per terra con le gambe al petto e con la gatta che gli si strofinava contro.

Poi all’improvviso scattò con la rapidità di chi ha un assoluto bisogno di una risposta, ed entrò nella camera di Gabriele. Era ancora tutto lì, sparso sul tavolo – il grinder svuotato, alcune foglie sminuzzate, l’odore inconfondibile. Si accostò alla finestra e guardò sotto, osservando i due che camminavano: Gabriele ancora traballava, ed era quello attaccato al braccio di qualcun altro per reggersi in piedi. E il braccio era quello di un nero.

Scivolò lungo il muro; era di nuovo da solo, nella camera di un figlio che non riconosceva. Erano due mesi che sua vita non era più la stessa, e tutta la stanchezza del cambiamento gli si stava riversando addosso. Non l’aveva chiesto a nessuno, quel magrebino; non aveva chiesto a nessuno che la figlia girasse le strade così svestita con tutti quei buchi alle orecchie; non aveva chiesto a nessuno di avere un figlio drogato. Eppure gli era capitato. E se tutte le cose fossero successe con quello Skander, quando quell’accattone aveva iniziato a bazzicare nelle loro vite? Tutto capitava dove passava Skander. Aveva portato il male in casa loro.

La collera di Evaristo sembrava crescere, mentre ammassava nella testa quelle sentenze che nemmeno sapeva di possedere. Troppo tempo, però, non potevano durare – lì, vicino a lui, c’era ancora un cassetto aperto e scorte di marijuana per almeno un mese. C’era quella girella per tritare l’erba sul tavolo, che portava i segni del tempo. Le parole di Skander risuonavano ancora nel pianerottolo, così vere così sincere, così velate di dolore, come se gli avesse letto nel pensiero. Skander aveva percepito tutta la paura di Evaristo, gliel’aveva letta negli occhi.

Evaristo si vergognò. Si vide piccolo così – irriconoscente e debole. Non aveva mai detto grazie a quell’uomo, che proveniva da chissà dove per prendersi cura della sua bambina. Per salvargli il figlio. Per dimostrare d’essere un uomo che ancora vale. Un uomo buono, che sa cos’è la vita. Evaristo ricordò che era anche lui un uomo buono, e poteva continuare ad esserlo. Valeva la pena accorgersi che la bellezza stava in un braccio stretto attorno alla vita di suo figlio. Guardò il proprio riflesso sull’anta della finestra, e ne rimase disgustato: “Non sono così. Questo non sono io. Ricordati chi sei, Evaristo”.

Sentiva ancora i due ragazzi ridere. Un miagolio richiamò l’attenzione dell’uomo – la gatta era entrata, silenziosa, e gli si stava strofinando sui pantaloni. Incrociò i grandi occhi verdi del felino, e rifletté che di Skander non si fidava, ancora: «Il suo è un mondo ignoto, per me. Solo se conosco posso decidere di accettarlo o meno. Voglio sapere chi diavolo è e cosa fa, Chicca, non posso lasciare la nostra Lucia in balia di un balordo. Se sarà da buttarlo fuori a calci, sarà fatto». La gatta tracciò un otto fra le caviglie dell’uomo con il passo felpato. Evaristo sospirò: «E se sarà da accoglierlo come un figlio, sarà fatto anche quello». Sorrise allora alla micia, che lo precedette verso la porta.

***

Evaristo destinò più tempo ai ragazzi tunisini del Centro, per conoscere quello straniero entrato in casa sua. Doveva superarsi e mettersi in discussione, per non far crollare l’amore di Lucia e perderla per sempre. Soprattutto, se voleva ritornare a conoscere se stesso. Nessuno meglio di quei ragazzi avrebbe potuto raccontargli la storia della loro gente.

Al pomeriggio, dunque, si avviò verso il “Centro di Malik” in via San Mamolo, dove insegnava l’italiano agli extracomunitari. Era subito entrato anima e cuore in quel progetto che all’inizio si occupava solo degli arrivi dal Mali. Il tutto si era poi ampliato, ed era diventata una vera scuola, che insieme all’accoglienza dei rifugiati africani offriva lezioni d’italiano. Evaristo seguiva i più giovani in tutto quel che poteva – li teneva d’occhio, anche fuori da scuola, assicurandosi che gli fosse assegnato un alloggio, che avessero qualche appoggio affidabile in città, che cercassero lavori onesti.

Il Centro era in una villa ristrutturata, color giallo canarino; c’erano ancora delle stanze libere all’ultimo piano e nel sottotetto, adibite a ripostigli o del tutto inutilizzate. L’aula dove insegnava era arredata in modo blando, con giusto una lavagna sulla parete verde e le sedie tutte diverse una dall’altra.

Quell’anno c’era il gruppo di ragazzi pachistani sempre presenti, qualche cingalese, due marocchini e una donna rumena. Da poco erano arrivati alcuni giovani tunisini. Quel pomeriggio dopo la lezione chiese a due di loro di accompagnarlo su a fare la ronda per spaventare i piccioni. Presero le torce e salirono ai piani alti. Dopo aver richiuso le finestre, si misero seduti sul pavimento di legno, illuminati dalla scarsa luce che filtrava dalla finestra: i ragazzi parlarono della Tunisia, dei venti del Sud, delle brezze marine, dei fratelli che erano rimasti lì. Evaristo, di rimando, cercava di mostrargli le facce di quel mondo ingiusto in cui erano capitati, con la delicatezza di un padre e la fermezza di un maestro. L’uomo stava smontando quella piramide di luoghi comuni che si era creato nella propria testa, dicendosi: “sono semplicemente ragazzi come tutti gli altri, ma più sfortunati. Sono partiti, costretti a lasciare la casa e la famiglia per cercare una vita migliore”.

Quel pomeriggio guardava i loro occhi, pieni di gratitudine per le parole di conforto, per il tempo dedicatogli, e si domandava dov’è che invece aveva sbagliato con quelli che erano davvero i figli suoi.

La domenica Evaristo si concesse uno spettacolo al Comunale. Decise di godersi da solo L’elisir d’amore – non aveva nessuna voglia di parlare con i colleghi della scuola, che erano i suoi soliti compagni di visione. La situazione in casa sembrava di essersi placata: Gabriele stava bene e aveva confessato al padre tutto, compreso il desiderio di smettere con la roba. Lucia studiava, Skander continuava a portarla ogni mattina in bicicletta al liceo, diceva d’aver smesso di spacciare, e si guadagnava qualche soldo dal pachistano continuando comunque a cercarsi un lavoro serio. “Non è facile”, ammise a sé stesso Evaristo, “specialmente senza il permesso di soggiorno”.

Erano le undici quando l’uomo uscì dal teatro. Nella sua mente ancora risuonava Una furtiva lagrima di Donizetti: aveva il cuore pieno di sensazioni miste di gioia per la bellezza della rappresentazione e di ansia, riaffiorata ancora e forse mai sopita, chiamata dalle note malinconiche dell’aria. Quella lacrima la sentiva ferma dentro di sé, che gli bloccava qualcosa in gola, gonfiandosi ad ogni passo senza avere via d’uscita, così come non avevano via d’uscita i pensieri bui: “Lucia Gabriele Skander Lucia Gabriele Skander” scandiva ad ogni passo.

All’improvviso un odore familiare lo riportò alla realtà. Scorse con la coda dell’occhio sotto il portico un rumoroso gruppetto e notò subito Skander accerchiato da altri uomini dai movimenti incerti, che si guardavano attorno attenti. Avevano in mano le bottiglie di birra e fumavano. Skander compreso. Quel puzzo di fumo era lo stesso che ogni tanto sentiva ancora in casa, quella schifezza che aveva messo in pericolo Gabriele.

“Quel bastardo mi ha mentito” balenò fulmineo nella testa di Evaristo, che non riuscì a trattenersi.

Si avvicinò di scatto a Skander, facendosi strada tra i suoi compagni, e gli urlò: «Sono stanco delle tue bugie! Noi ti abbiamo dato un tetto sotto il quale vivere e quello che sai fare è inquinare la nostra vita con le tue porcate che fumi e spacci con i tuoi amici!»

I compagni di Skander strinsero il cerchio minacciosi, mentre l’uomo continuò: – Siete solo dei poveracci che imbrogliano la gente! Che ci portate schifezze in casa e ci ammazzate i figli!

«Evaristo, calmati. Non sai quello che stai dicendo» bisbigliò Skander, piano, preoccupato della reazione dei compagni. Si rivolse a loro in arabo con la voce ferma, cercò di tranquillizzare anche loro.

Ma Evaristo fece un gesto improvviso: balzò qualche passo indietro, tirò fuori il cellulare e cominciò a scattare foto una dietro l’altra: «Ora vado dalla polizia e vi denuncio» sentenziò, carico di collera.

Tutti rimasero impassibili di fronte a quella scena. Fuorché Said: «Ti conosco, sai» disse stringendo Evaristo contro una bacheca di vetro. «Mio cugino va alle lezioni da te, quindi se ci provi ti vengo a prendere».

«No, Said!» urlò Skander precipitandosi su di lui.

Il tunisino gli rivolse una lunga parlata nella sua lingua gesticolando forte. Skander fece un passo indietro, si prese la testa tra le mani e abbassò lo sguardo. Said spinse Evaristo contro il vetro fissandolo negli occhi, poi seguì una botta e sul vetro della bacheca si formò una fragile ragnatela.

«La prossima botta sarà per te se non ti calmi» disse Said scrollandosi i vetri dalla mano dolente.

I tunisini erano terrorizzati dall’idea di essere denunciati, e andarono subito da Mounir, a raccontare ogni cosa. Raccontarono più di quel che era stato in realtà, nemmeno sapendo che Skander aveva pregato Evaristo di eliminare quelle foto, e di tornare veloce a casa. Erano corsi via al pugno di Said. Mounir veniva da una storia decennale di spaccio e crimine, una storia che iniziò in Spagna ed era arrivata sin lì in Piazza Verdi, di cui adesso controllava il traffico. Era lui il padrone di via Zamboni e dintorni. E fu lui a decidere che Evaristo doveva essere tenuto sotto stretto controllo.

Quando Evaristo tornò a casa quella sera, sperava di non trovare nessuno. Gabriele era su in camera, tutto sembrava deserto. Nessuna traccia di Lucia. Non avrebbe dormito neanche quella notte.

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«Che cretino, che stupido di padre!» esternò Lucia indignata. «Non doveva aggredirti così, davanti a tutti!»

Skander aspettò la mattina successiva per raccontarle dell’accaduto, non aveva chiuso gli occhi nemmeno lui quella notte. Conosceva troppo bene le regole del gioco e si rendeva conto che quando si tira in ballo uno come Mounir, c’è poco da scherzare. Sapeva di cosa era capace quell’uomo che teneva sempre un profilo basso, che si vestiva con poco al punto che qualche volta lo si poteva vedere pure in ciabatte d’inverno. Non aveva bisogno di nulla con sé, si portava appresso solo la propria fama.

«Lucia, tuo padre aveva tutte le sue ragioni per fare quello che ha fatto. Ha visto me, là, in mezzo, non può sapere cosa costa uscirne fuori. Sono in pensiero per Evaristo» confessò «e non mi fido di quelli che fino a poco fa chiamavo amici miei. Ho paura che gli facciano del male».

«Proprio perché non sa, non dovrebbe tirare conclusioni azzardate. E fare sceneggiate. Mio padre ti ha umiliato, ti ha messo in un grosso rischio» disse esasperata la ragazza. «Stasera glielo farò capire io».

Al Centro, invece, la tensione di Evaristo si attenuò: quel giorno i ragazzi sembravano più turbati di lui, e notò che mancavano quasi tutti gli alunni tunisini. Ma non diede importanza al fatto, e non lo collegò nemmeno a quello che era successo la sera prima: «Voglio vedere in che modo pensano di ottenere il permesso di soggiorno» commentò. «Per avere il certificato di lingua italiana le presenze servono».

Cominciò a scrivere sulla lavagna, dando le spalle alla classe. D’un tratto sentì la porta sbattere violentemente. Si girò e vide entrare due ragazzi che non aveva mai visto. Sembravano tunisini, e puntarono dritti verso di lui. Non c’era nessuno al Centro a vigilare.

I ragazzi si diressero verso Evaristo, lo afferrarono per un braccio strattonandolo fuori della porta; in un italiano perfetto furono perentori, ordinando a tutti i ragazzi di non muoversi. Portarono, poi, Evaristo al buio dei piani alti: «Dacci il cellulare, stronzo» gli intimarono. Evaristo obbedì; una botta violentissima al braccio lo fece cadere sul pavimento, dove c’erano un paio di scarpe consumate pronte a pestarlo forte. Poi arrivò un dolore all’addome, una botta alla testa e il sapore salato in bocca.

«Adesso non parli più, eh! Non urli più come l’altra sera, vecchio di merda» abbaiavano i due, mentre lo riempivano di calci e di botte. Il corpo di Evaristo bruciava ovunque, e le parole che gli gridavano nelle orecchie presto svanirono. Ci volle poco per perdere i sensi. Quando Evaristo riprese conoscenza, vide i volti preoccupati degli alunni chinati sopra di lui, mentre la donna romena con un panno bagnato cercava di fermargli il sangue dal naso. Lo accompagnarono al pronto soccorso, ma prima di entrare l’uomo impose ai ragazzi di non parlare. Non li avrebbe coinvolti in quella storia per nulla al mondo: loro non c’entravano, non potevano correre rischi.

«Sono caduto dalle scale» confessò all’infermiera che lo medicò. «Abbiamo rampe di scale infinite, a scuola».

«Frattura del setto nasale ed emorragia sottocutanea. Tre costole incrinate. Ci vorranno tre settimane di riposo» fu la diagnosi del medico.

Evaristo chiamò un taxi per tornare a casa. Gli chiese di passare per Porta Santo Stefano, voleva allungare il ritorno per poter pensare cosa dire a Gabriele e a Lucia. Doveva impedire che quella gente rientrasse a scuola, che minacciasse i ragazzi, che arrivasse addirittura a toccare la sua famiglia. Entrò in cucina e aprì il freezer per prendere del ghiaccio, e intanto che avvolgeva la busta gelata in un panno, si chiedeva se fosse il caso di avvertire la polizia. E dalla sedia della cucina si azzardava a fare qualche collegamento, a ripensare alla sera fuori dal teatro, agli “amici” di Skander. La memoria gli correva da un flash all’altro – dalle grida, dagli insulti, sino al pugno sul vetro. Fissava il tavolo di mogano alla ricerca di un volto, e di un dettaglio da poter offrire a chi dovesse aiutarlo a cercare quei balordi. S’era versato dell’acqua nel bicchiere, ma si accorse mentre lo sollevò per bere che la mano tremava ancora. Dovette riappoggiarlo, fermarsi ad avere paura. Fino a quel momento non se l’era ancora concesso.

Sentì allora sbattere la porta d’ingresso, e un passo veloce verso la cucina: riconobbe l’incedere degli anfibi di Lucia: «Papà!» urlò la ragazza su di giri. «Ti devo parlare subito!»

Evaristo vide entrare la figlia con l’espressione severa. Ma fu lei a bloccarsi, ammutolita: alla vista del volto tumefatto del padre Lucia si ghiacciò. Impallidiva, premendosi le mani sulla bocca: «Papà cos’è successo? Cos’hai in faccia?!»

«Nulla, tesoro mio. Sai che abbiamo tante scale al Centro, no? Ecco, non sono stato attento, tutto qua». Ma era così poco convincente da accorgersene lui stesso.

«Papà, fammi il piacere! Vedo una fascia sotto la maglia, che ti gira tutta attorno al petto! Che cavolo è successo? Basta balle: sembra ti abbia tirato sotto uno scooter!»

Evaristo fissò la sua bambina. E lei non avrebbe mai voluto essere guardata così, con gli occhi di chi tiene una verità che non è fatta per te.

Lucia azzardò: «Lui non è stato. Lo so per certa. Ero venuta qui per dirti di farti gli affari tuoi, di starne fuori. Di non mancare di rispetto a Skander». Fece una breve pausa, guardando il muro sopra di lui: «E invece ora va tutto storto. Così no, papà, così non glielo permetto. Loro non ti devono toccare. Skander non può portare questo, in casa nostra».

«Lucia…» sussurrò Evaristo, ma la ragazza era già fuori dalla stanza. Sentì solo un rumore sordo: era la porta che le si richiudeva alle spalle.

E Lucia correva con tutte le sue forze. Tratteneva un uragano dentro di sé. Quell’uomo che amava l’aveva tradita nel modo più meschino. Avevano osato fare del male a suo padre, e lui, il responsabile di tutto, li aveva lasciati fare. Bugiardo, ipocrita. Non aver protetto Evaristo era come non aver protetto lei – la sua famiglia. Skander aveva scelto, e aveva scelto loro. Quando trovò Skander, fu travolta dalle lacrime: «Sei un animale, un dannatissimo animale!» furono uniche le parole che riuscì a pronunciare, prima che le si tappasse la gola col pianto.

Skander capì subito. Capì tutte quelle cose che non avrebbe mai potuto spiegare a Lucia. Cose di vendetta, cose grandi – più grandi di loro e di tutta la loro vita insieme, fantasticata e progettata milioni di volte. Aveva poco tempo per agire, prima che a Evaristo fosse spezzato il collo. Prima che l’amore negli occhi della sua bellissima Lucia divenisse odio. Prima di perdere la miglior cosa che gli fosse capitata nella vita. Prese Lucia per mano e l’attirò a sé: «Non devi girare per strada da sola» le disse. E iniziò a trascinarla verso casa. Lucia cercò di divincolarsi per tutti i trecento metri che li separavano dal portone, ma Skander non mollava la presa: «Dopo ti spiego tutto» le sussurrava fra i capelli, e la lasciò solo davanti al verduraio, sotto gli sguardi stupiti dei passanti.

«Bugiardo, sei solo un bugiardo!» sibilava la ragazza. La sua voce lo tagliava forte.

Skander aprì la porta dell’appartamento con la chiave. Evaristo era seduto a tavola con Gabriele, ed entrambi smisero di colpo di parlare. Lucia finalmente riuscì a liberare la mano, spinse con violenza Skander e si precipitò verso il padre abbracciandolo: «Ho sbagliato tutto, papà» disse. «So che avevi ragione quando dicevi…»

«Non è stato Skander, Lucia» la fermò Evaristo.

Skander si avvicinò al tavolo e mise sopra le chiavi di casa: «Mi dovete accompagnare alla polizia. Dirò tutto, nomi e cognomi. Tu non poi farlo, Evaristo. Metteresti in pericolo la tua famiglia».

«Così vieni espulso Skander!» scattò Gabriele.

«Ho fatto la mia scelta, Gabbo».

Skander accelerò il passo per andare al commissariato in via del Pratello. Era finita ed era disposto anche a tornare in Tunisia. Tratteneva le lacrime, e ogni tanto si voltava sperando che Lucia lo stesse seguendo. Ma non c’era nessuno. Il commissariato lo accolse con delle luci gelide; il poliziotto all’ingresso lo squadrò e chiese: «Documenti?»