Il cammino del profugo – Giovanni Bitetto, Andrea Marino, Antonella Panza
Tahir
«Datemi quel telefono! Subito!»
Tahir sfilò l’aggeggio dalle mani di Noodi e Omar, le testoline dei bambini si protesero verso l’alto, seguendo l’arco compiuto dal braccio del fratello maggiore.
«Questo non è un gioco! Andate via!»
I due scapparono, virando in direzione della mamma. Tahir guardò i fratelli e sospirò: gli dispiaceva essere stato scorbutico, ma voleva risparmiare loro la vista della casa sventrata. Dietro di lui i vecchi parlavano in maniera concitata, il padre stringeva una cartina consunta sovrastato dalla figura enorme di Wadi. Il giovane li guardò di traverso, chiedendosi perché non avessero voluto ascoltare il suo consiglio, poi calciando la sabbia si sedette a terra, ripensò alla successione di eventi che li aveva portati a perdersi nel deserto.
Il giorno precedente era stato un inferno. I miliziani avevano assaltato il quartiere, sfondando con i cingolati le barriere erette dai ribelli. I commando si erano riversati nelle strade, facendo risuonare le tristi risate dei kalashnikov, mentre dai tetti i cecchini rispondevano silenziosi, ma altrettanto efficaci. I vicoli si erano riempiti di corpi: i civili capitati loro malgrado sulla traiettoria degli scontri, i militari caduti per mano dei ribelli, o le prime prede degli assalitori, cadaveri martoriati, segnati dall’impronta degli anfibi.
Da giorni ci si aspettava uno scenario del genere, eppure l’incertezza aveva spinto i residenti a comportarsi come se nulla fosse, a continuare la propria vita: i ragazzi andavano a scuola e i commercianti aprivano le botteghe, nelle sale da the il brusio degli uomini si coloriva della minaccia imminente. Nessuno aveva la forza di prendere una decisione, i più coraggiosi si erano già uniti ai ribelli, loro, gli altri, si sentivano pavidi. Ma è giusto sentirsi vittime solo perché non si vuole far parte della schiera dei carnefici? Tahir, come del resto la sua famiglia, si chiedeva se il solo fatto di non aver preso le parti degli uni o degli altri, il non volersi sporcare le mani con il sangue (sia pure quello degli assalitori) li portasse dalla parte del torto. Gli interrogativi ebbero vita breve, perché dal momento in cui il quartiere divenne zona di guerra c’era un’unica cosa a cui pensare: organizzare la fuga.
Perché erano stati così stupidi da non prendere in considerazione questa eventualità? Perché il padre, ogni qual volta Afrah tirava fuori l’argomento a cena, doveva zittirla con sguardo severo? Avrebbero potuto fare le cose con più calma, essere pronti. E invece si erano trovati a scappare nei vicoli, raggiungere le porte della città con gli zaini semivuoti e i piedi già sanguinanti. Si muovevano in gruppetti, per la maggior parte composti da abitanti di uno stesso isolato, e pregavano che i colpi di mortaio non ponessero fine alla loro corsa.
Tahir era rimasto indietro, traumatizzato dalla visione della casa in fiamme. Un razzo aveva penetrato le mura domestiche, una bomba si era depositata nell’atrio, dischiudendosi nell’ondata di distruzione. Se fossero rimasti in casa, di loro non sarebbe rimasta che polvere. Strinse il cellulare e fotografò lo scempio, voleva documentare, con l’occhio della mente e con quello del cuore, per poter reclamare giustizia un giorno, quando il dolore si sarebbe acquietato.
«Abbiamo deciso di seguire la tua indicazione».
Wadi gli aveva posato una mano sulla spalla, costringendolo a girarsi. Quel volto adornato da folti mustacchi gli ricordò la lunga traversata fatta nella notte, gli occhi che tentavano di non guardare in direzione della città, i fuochi degli scontri illuminavano le loro vecchie abitazioni ormai ridotte in macerie.
«Da che parte dobbiamo andare?»
Dietro di lui gli altri uomini lo guardavano sospettosi, il padre aveva accartocciato la cartina che, dopo tanti sballottamenti, risultava inservibile. Da quando si erano allontanati dalla strada (perché pensavano che fosse più sicuro) non ci era voluto molto a perdersi. La sicurezza che quegli uomini ostentavano nelle faccende di tutti i giorni era inversamente proporzionale alla praticità dimostrata durante la fuga. Per Tahir era stato facile trovare la via giusta: aveva semplicemente cercato sullo smartphone l’itinerario per la Turchia, adoperando il GPS.
«Per di là».
Tahir indicò la direzione, in modo che tutti la vedessero. La combriccola si accinse a ripartire, ognuno rimetteva le proprie cose negli zaini. Un sorriso si stampò sul volto del ragazzo: era soddisfatto di aver convinto i capifamiglia. Finalmente gli veniva riconosciuto il giusto merito. Si apprestò ad agguantare i propri indumenti, l’occhio gli cadde per l’ultima volta sullo sfondo del cellulare. Lui, mamma, papà, Omar, Noodi, Afrah. La famiglia sorridente, vestita con l’abito della festa. Che fine aveva fatto quel quadretto? Lui sporco di polvere, mamma e papà tesi e adombrati, costretti a fingere tranquillità per non allarmare i piccoletti. E Afrah? Dispersa chissà dove… Non la vedeva dal momento in cui quel camion aveva tagliato loro la strada nella fuga… Divisi dal bisonte di metallo, aveva sentito Afrah scappare in un vicolo laterale assieme ad altre donne. Lui, preso dalla paura, si era spinto avanti. Pensava si sarebbero rincontrati ai limiti della città… Ciò non era avvenuto. Distrutti dal dolore avevano raccomandato la sua anima a Dio e si erano allontanati dal pericolo.
«Forza ragazzo, andiamo!»
Wadi lo esortò ad affrettarsi. Colui che nella vita precedente era stato il suo vicino di casa sembrava averlo preso sotto la sua ala protettrice. Sin da subito, infatti, aveva appoggiato la sua proposta di usare la navigazione satellitare, anche a costo di dover andare contro la stessa famiglia del giovane
«Arrivo!»
Tahir si affrettò a raggiungere gli altri. In quei pochi metri impugnò il telefono e scrisse l’ennesimo messaggio alla sorella. Poi alzò lo sguardo verso la linea dell’orizzonte. L’immensità si stendeva di fronte a loro.
Afrah
Fuggire: l’unica cosa da fare, l’unico pensiero di Afrah. Perduta fra gli sconosciuti, cerca con lo sguardo i suoi familiari, comincia a seguire un gruppo. Giorni con persone che non ha mai visto, adesso diventati compagni di viaggio, i familiari, poiché quelli veri non ci sono.
«Dove state andando?»
«Vieni da questa parte, c’è posto anche per te!»
«Ma io devo cercare la mia famiglia, non è ancora il momento».
«Se perdi quest’occasione, non sai quando ti ricapita. Vedrai come si accalcano tutti, ci stiperanno come sardine, senz’acqua, senza poter respirare. La libertà ha un prezzo salato, bisogna andare ora, prima che il vento cambi e sia troppo tardi anche per noi!»
Afrah invia un messaggio al fratello. È dubbiosa se partire o meno, ma intorno vede solo macerie. Il gruppo si avvicina al porto, passano le ore, è buio ormai, nessuna risposta da Tahir. E intanto in lontananza scorge il barcone avvicinarsi, con la gente che comincia ad accalcarsi. Le urla delle donne, i pianti dei bambini: tutto le appare sfocato come in una realtà parallela e terribile, mentre il freddo della sera penetra le ossa e la getta in un sopore che impedisce ogni decisione, pensiero, capacità di distinguere tra giusto e sbagliato. Si osserva fuori da sé, avvolta nella foschia della sera. Si addentra nel gruppo in cerca di protezione, come se fosse per lei la speranza, raccattata dalla scia amorfa e inebetita di disperati alla mercé dei traghettatori.
«Aspettatemi, aspettatemi!»
Passano ore, Afrah è nella stiva assieme a tanti altri. Nel buio non vede nulla, solo i rumori esterni al barcone, l’acqua così vicina, il respiro denso degli altri, il calore che ben presto si trasforma in un tanfo insopportabile. Dice a se stessa di resistere, le hanno detto che poi vedrà la luce. Le voci sorde che provengono dall’alto e il rumore ingolfato dei motori sono intervallati da attimi di assopimento, secondi che la allontanano da quella fuga, dal tentativo di sopravvivenza. Il suo zaino e lo smartphone sono sul suo petto, stretti come le cose più preziose, la speranza di rientrare in contatto con i suoi, di ritrovare Tahir, che bramava come guida.
E mentre questi pensieri sono interrotti dall’affiorare delle scene di distruzione, della sua casa sventrata, della polvere mista al sangue che ricopriva le persone – nuvole per niente rassicuranti di una vita così vicina ma già passata – all’improvviso sente le voci e i rumori dell’attracco. Qualcuno grida: «Ci siamo, adesso ci tirano fuori!»
Segue l’interminabile attesa, poi «Forza, tutti fuori, sbrigatevi!» E tra le imprecazioni e gli spintoni, nel caos e nella stanchezza della costrizione fisica, il primo sguardo di Afrah va al cielo, alla luna piena, la stessa che ha fissato tante volte dalla finestra di casa, mentre si immaginava il cammino nel domani, ferma, imperturbabile, sicura, proprio come vorrebbe apparire adesso.
Una volta fuori cerca di stabilire dei contatti, ma sono tutti impegnati a disperdersi, il suo tentativo cade nel nulla. E poi l’umidità della notte, la fame e la debolezza che per un momento l’assalgono, rallentano le sue reazioni. Intanto fanno cerchio attorno ad uno zainetto, qualcuno ha rimediato un router: permetterà loro di orientarsi, di capire dove sono e come organizzare i momenti successivi allo sbarco (almeno fin quando dureranno le batterie).
«Dove siamo?»
Le avevano detto che sarebbe sbarcata ad Alessandria, da cui ti assicurano che c’è posto per te su un barcone, per tremila dollari. Ti tengono ben nascosto e al momento giusto si parte. La prima tappa era l’Egitto, qui avrebbe incontrato di nuovo le due amiche con cui era rimasta in contatto, con loro sarebbe partita per l’Italia. L’incontro è vicino all’università, dove le giovani si recavano con il rammarico di aver abbandonato gli studi, e vedendo la loro vita ridotta a soluzioni di fortuna. Afrah sa che appostandosi lì prima o poi le avrebbe incontrate. Dopo la lunga attesa, quando ormai è sfinita, le scorge.
«Karima, Karima, finalmente, come state? Temevo di non riuscirvi a trovare, son così stanca, non so nulla della mia famiglia. E mio fratello, sarà partito? Fermiamoci qui, ho bisogno di mettere in carica il mio telefono».
«Sì vieni, qui siamo al sicuro almeno per un po’».
Le due ragazze la conducono presso la loro casa, le offrono del cibo, cercano di confortarla. Anche per lei c’è un rifugio temporaneo.
«Anche qui c’è la guerra, islamisti e miliziani, è uno scontro continuo, non ci resta che abbandonare di nuovo tutto. Non sai quanti sono stati presi. Anche il nostro contatto Ahmed, accusato di stare con i Fratelli Musulmani. E se ti prendono sei finito, resti dentro a marcire. Che speranza ha di salvarsi? Come può comprarsi un biglietto per il Libano o la Turchia? L’alternativa è firmare i documenti ed andarsene da deportato in Siria, che disastro! Da quando l’aria qui è cambiata, l’Italia per noi è l’ultima speranza. Ci arrivano notizie di tutti i siriani che finiscono in galera in questi giorni, non puoi immaginarti quanti, e gli attivisti che fanno la stessa fine, li lasciano in condizioni pietose, dobbiamo andarcene. Qui i siriani sono visti solo come dei terroristi: mio padre è stato picchiato, le nostre famiglie sono continuamente minacciate. Così quello che ti scrivevo, l’idea di farci una nuova vita qui, dove c’era già mio zio da un po’ di tempo, e ci raccontava che stava bene, ora non è più possibile, ora ci resta solo l’ultimo viaggio».
«Sì, proprio quello, l’ultimo, quello della morte».
Afrah trasale: «Perché della morte? Deve portarci bene!»
Karima scuote il capo: «Già, tu non lo sai, ma qui è così che lo chiamano, lungo la costa africana, perché son tanti a lasciarci le penne… Sì, nei barconi sovraccarichi, in un viaggio che dura notti intere, sei fortunato se non muori nel mentre, se non ti lasciano nella calca, se non ti buttano in mare prima di poter arrivare a nuoto a riva».
«A mio zio, che è arrivato, gli è stato tolto il passaporto, l’hanno trattenuto in commissariato. Ora è fuggito e aspetta solo la chiamata del trafficante. Saremo tutti lì, ci sarà anche lui. Partiremo insieme, facciamoci forza».
«Sì, ce ne andremo,succederà, andrà tutto bene, avremo la forza di ricominciare».
Bussano, un rumore sordo, le giovani sono scosse dai tremiti. Si guardano preoccupate: «Chi è?» bisbiglia Afrah .
«È mio padre» risponde Karima. «Shhh, aspetta! Sta dicendo qualcosa! Devo sapere, vado a sentire. Forse ha notizie dal nostro contatto!»
Karima si allontana per avere notizie, improvvisamente si ritrova in un clima di gran concitazione: vede i genitori urlare, agitarsi, guardarsi in giro per raccogliere l’essenziale da portar via, poi subito chiamare gli altri a raccolta per radunarsi in un punto sicuro da cui sarebbero stati prelevati per il trasporto fino al porto. E da lì, finalmente, l’imbarco. Karima, il volto spaventato, ritorna a dare la notizia, hanno pochissimo tempo, devono sbrigarsi, son tipi che perdono la pazienza, e non possono permettersi di indugiare, devono rispondere alla chiamata. Come dei soldatini schierati e pronti a combattere, ma con il terrore negli occhi, si precipitano tutti nel punto convenuto. Poco dopo si scorge un veicolo in lontananza, il frastuono dell’avvicinamento, l’affollarsi di tutti all’esterno, all’improvviso zittiti dal conducente. Tutti stipati nel furgone, un viaggio nel mutismo più assoluto, solo sguardi attoniti che si incontrano di tanto in tanto, e la perenne incertezza del domani.
Il ragazzo
La televisione è accesa sul primo canale, è ora di pranzo, trasmette il notiziario. Riunisce la famiglia ancor prima dei piatti che stanno per essere serviti a tavola. Sembra quasi difficile concepire un pasto senza il telegiornale acceso. Racconta la perpetua litania di tragedie, in ordine di gravità e assenza di qualsiasi senso umano di rispetto, anche il più elementare. È ora di pranzo: bisogna nutrirsi di buon cibo e buone disgrazie, per illudersi sempre che la realtà non cambia come non cambia il pane che si sta per mangiare, che bene o male ha sempre lo stesso sapore.
In convivio di fronte alla realtà trasmessa sul piccolo schermo è riunita tutta la famiglia. Seduto a capotavola (il posto a capotavola è quello frontale alla televisione) viene servito il padre. È un uomo che ha superato i quarant’anni, impiegato di ufficio in una piccola azienda, tifoso calcistico da una vita, pochi amici che si trovano sempre negli stessi posti e che non sono andati molto lontano di quanto si erano promessi parecchi anni prima, una ancora inconsapevole e crescente dipendenza dal gioco d’azzardo (piccole scommesse, niente di grave). Soffre molto perché sta iniziando a perdere i capelli. Alla sua sinistra sono seduti i figli: un ragazzo e una ragazza, che stanno per ricevere il piatto di sconsolata pasta e legumi, come sempre distratti e velatamente infastiditi dall’obbligo di sedersi a tavola con la famiglia per mangiare e parlarsi con la televisione accesa. Ha cucinato la moglie – solo lei sa cucinare – come sempre distratta e infastidita dall’obbligo impostogli dal ruolo di essere madre che prepara da mangiare e si occupa della famiglia. La sua distrazione e il suo fastidio, però, sono di qualità diversa rispetto a quelli dei figli, sono come un atto di sopravvivenza. I figli si annoiano e basta, lei deve anche servire i piatti a tavola. Fa la casalinga, lavora part-time in una mensa scolastica, si chiede sempre più spesso perché si è sposata; prima di coricarsi, la sera, assume farmaci antidepressivi, alle dosi minime. Si siede anche lei dopo aver controllato che tutti abbiano il piatto davanti, provando almeno il piccolo orgoglio di aver nutrito la famiglia e sperando che nessuno si lamenti di questi tubetti con ceci. La televisione resta accesa, ora il notiziario sta riportando la situazione politica del Paese.
«Buon appetito» pronuncia il padre con un tono abitudinario e opaco mentre fissa lo schermo della televisione, dando il permesso alla famiglia per iniziare a mangiare. Deglutiti i primi cucchiai di pasta, si inizia a sentire l’imbarazzante silenzio armonizzato solo dai rumori della bocca e dalla notizia che l’economia non sembra ripartire e che la crescita è rimasta stazionaria rispetto allo scorso anno. È quantomeno curioso che in un contesto familiare si provi questo tipo di imbarazzo visto che ci si trova, appunto, tra familiari, ma queste persone a dire il vero si conoscono ben poco, il loro affetto obbligatorio non sembra aver aperto relazioni vere e sentite, ma solo rapporti resi necessari dalla quotidianità e dalle norme sociali. Sembra che la madre avverta questa impasse e ne soffra, ma non ha mai espresso agli altri questo conflitto, preferendo tenere tutto dentro di sé, per non turbare la famiglia, per timore delle loro reazioni.
«Va bene di sale? È troppo salata?» domanda la madre. Come le altre volte, inizia sempre lei un tentativo di conversazione.
«No, va bene. Secondo me potevano cuocere ancora i ceci. Li schiacciavi e veniva ancora meglio».
«Ero indecisa se farli così, e poi a tuo padre non piacciono tanto… Non lo so, a te piacciono?» chiede al figlio, che preferisce fare un seccato cenno d’approvazione col viso invece di esprimersi verbalmente. Il padre continua a seguire il telegiornale, che sta parlando ora di politica estera. L’imbarazzante silenzio ritorna ad appoggiarsi a tavola. Il figlio prende dalla tasca il suo smartphone, avendo già vuotato il piatto, come per desiderio intenso di fuggire da quel triste simposio e pensare alle cose sue. Controlla con efficienza i social, i messaggi (ne sono arrivati alcuni vocali sulla chat di gruppo degli amici, si lamenta tra sé perché non può ascoltarli subito e sa che non può ancora alzarsi da tavola), e tra questi gli è arrivato il più atteso e importante.
Questo è un atteggiamento che non passa mai inosservato al padre, sempre attento all’ordine della tavola nonostante sia sempre impegnatissimo a seguire la televisione. La sua reazione non si fa attendere: «Perché non messaggi mai con me? Che c’avete da dire pure a ora di pranzo? Spegni ‘sto coso e ricordati che stiamo a tavola!»
«Non c’è bisogno di alzare la voce! Si è solo distratto un attimo. Però tuo padre ha ragione, quando poi stai insieme agli altri pure ti comporti così? Non fai una bella figura, e non dire che non te l’abbiamo detto».
La sorella si mostra indifferente e superiore a questa ennesima sceneggiata familiare, anche perché per lei lo smartphone diventa troppo spesso una fonte generosa di ansia. Stando a tavola e se vuole, pensa, preferisce distrarsi senza darlo a vedere.
«Vado a Budapest. Ve l’avevo già detto che sarei andato a trovare un amico che studia là. Oh, volevo solo controllare se devo uscire tra poco o stasera. Devo andare a prendere delle cose. Scusate eh, non lo faccio più!»
Ritorna il silenzio. Si alza la madre, come sempre, togliendo i piatti dalla tavola per poter servire il secondo, sempre con la stessa monotonia. La televisione trasmette le previsioni meteo.
Tahir
Tahir, bruciato dal sole, si rivolge ai suoi: «Dobbiamo fare in fretta, stiamo perdendo troppo tempo! Non lo capite? Wadi, ci serve il tuo aiuto, dobbiamo stabilire in fretta un’altra rotta».
Wadi mette giù il suo zaino, predispone l’attacco e cerca la posizione.
«Dove siamo qui? Non possiamo essere troppo lontani dalla città. Laggiù si vedono delle case, o forse sono dei capannoni di una zona industriale.
«Tieni, prendi questo cavo, collegalo alla batteria. Non ci pensare ora, non ti preoccupare, a guardare la rotta più giusta ci guadagniamo. Dobbiamo solo sperare che non ricominci a piovere, se no diventa davvero difficile. Non ci siamo mai fermati da allora, io sono davvero stanco, ma non possiamo mollare ora! Quella che vedete laggiù è Kayseri, siamo ancora lontani da Ankara. La capitale è lontana chilometri».
«Se non avessimo dovuto fermarci al confine per tante ore…»
La pioggia batte per ore, la necessità è quella di nascondersi per non rischiare di essere presi, identificati e, nella migliore delle ipotesi, essere rispediti nell’inferno da cui – con le unghie e con i denti – stanno cercando di venir fuori. Anche le possibilità di approvvigionamento di acqua e cibo sono ridotte al minimo. Wadi s’illumina: «Ecco un messaggio di Talib. Mi dice che sono vicino a Bucarest, sono in un campo, c’è un volontario che gli fa usare il suo telefono. Forse se avessimo seguito l’altra rotta non saremmo ancora qui. A loro manca poco per arrivare in Ungheria e da lì in Austria».
«Sai cosa significa questo?» domanda Tahir. «Lo sai, vero? Significa che se qui ci prendono ci rispediranno indietro, in Turchia non ci vogliono, e col rafforzamento dei controlli che stanno facendo ovunque in Europa, ogni secondo che perdiamo in più per andarcene è una possibilità in meno che abbiamo».
«Ma che dici? La Turchia è con gli occidentali. Adesso li fa uscire tutti verso l’Europa! Qui non ci vogliono perché siamo in troppi, ci fanno andare via! Però non devono essere loro a decidere per noi, dove e quando. Voglio decidere io che fare della mia vita!»
Tahir si arrabbia: «Ma se ‘sti maledetti turchi hanno aiutato lo Stato islamico, questi ci rispediscono indietro, cazzo, o ci fanno morire qua!»
«Ti dico che non è così. La Turchia fa parte della Nato, è tutta una storia politica. Devi informarti meglio ragazzo, hai proprio tante cose da imparare!»
E mentre i due continuano a dibattere, voci di protesta del gruppo sollecitano la ripresa del cammino.
«Guarda il cielo, non promette niente di buono, dobbiamo correre! Se potessimo fare un percorso più diretto, seguendo la linea ferroviaria o la rete autostradale, potremmo arrivare a dimezzare le distanze».
«Lo sai che è troppo rischioso. Non è possibile».
Qualcuno continua a smozzicare un pezzo di pane. Si passano l’acqua, si fanno coraggio e cominciano a riprendere il cammino, mentre nubi nere si assembrano all’orizzonte.
«Vedrete, man mano che ci spostiamo verso nord la giornata si allunga, forse abbiamo un po’ di respiro, andiamo!»
Un serpentone di anime in pena, fatto di uomini, donne e bambini. Passano in zone di campagna, dove solo gli ululati dei cani a guardia di sperduti casali accompagnano una marcia silenziosa ma tenace. E dopo tanto cammino, a notte fonda, avvistano un casolare abbandonato. Tahir, occhi sbarrati, è assalito dai pensieri: “Wadi dice che se riusciamo a utilizzare al meglio le nostre risorse tra due settimane dovremmo essere in Europa. Ma quanti di noi resisteranno? Col freddo della notte, un accampamento di fortuna, e pochi viveri? No, no, no, devo fidarmi di lui, non posso far di testa mia, devo farcela, anche per gli altri, per la mia famiglia!”
È una di quelle notti in cui le speranze si affievoliscono, in cui ogni sforzo sembra inutile, e guardare ancora una volta le foto della famiglia riunita servirebbe solo ad acuire certe ferite. Tahir spegne il suo smartphone, si gira su un fianco e prova ad addormentarsi. I giorni che seguono sono una replica di quelli appena trascorsi: la conferma della rotta da seguire, la verifica dei contatti, l’approvvigionamento di acqua, le piccole liti e la stanchezza. Ma non si danno per vinti, li spaventano le montagne della Serbia, prima di poter raggiungere l’Ungheria con la sua sconfinata pianura. Intanto nei pressi di Salonicco trovano sosta, vicino al mare si rifocillano come possono.
Il ragazzo
Mi stanno sempre addosso ogni cosa che faccio, non posso dire niente, non mi fanno fare niente, non mi lasciano parlare, sempre a dire le stesse cose, e fai questo e fai questo e fai quello, e dopo che pensi di fare, hai deciso o no? Non lo so, mamma, non lo so. Che posso fare? Mi scoccio di studiare, chi ti fa lavorare ti tratta male, ho parlato con degli amici miei: prendono solo gli immigrati, perché li pagano poco e non si lamentano se li fanno lavorare anche più di dodici ore. Io non sono vostro. Vado a Budapest per un po’, ho un amico lì, provo a vedere se trovo qualcosa. Tranquilli, resto poco. Non mi state addosso! I soldi ce li ho papà, non ti preoccupare. Non mi serve niente, ho già tutto. Vado a prendere le ultime cose da un amico. Posso andare da solo all’aeroporto, non serve che mi accompagnate. Ho fatto una foto alle valigie e l’ho postata su Facebook. 52 like! Ciao stronzoni, io me ne vado, e voi restate a fare la vostra vita di sfigati!
Afrah
Karima urlava, Rashida urlava. Afrah cercava di allungare il braccio sopra la calca per afferrare le loro mani tese. La folla la respingeva nella stiva, mentre i volti delle amiche sparivano a prua, sopraffatti dal fremito di centinaia di altri volti urlanti. Afrah si guardò i piedi: l’acqua arrivava sino alle caviglie, da poppa si spandeva un fumo acre, le fiamme guizzavano attorno allo scafo e arroventavano il metallo, la stiva in cui erano rinchiuse da giorni stava diventando un forno. Stretti fra acqua e fuoco, l’inferno per mare, Afrah chiuse gli occhi.
Non poteva caricare il cellulare, lo accendeva solo quando l’oscurità si faceva opprimente e i lamenti attorno a lei si trasfiguravano in risate soffocate. Allora stringeva il cosino di plastica e la luce azzurrata dello schermo illuminava i corpi di chi le stava intorno, gli occhi lucidi e rassegnati di donne, bambini, vecchi dai capelli sottili, la linea accennata delle labbra di Karima e Rashida. Da giorni ascoltavano lo sciabordio delle onde, le parole secche degli scafisti che aprivano i boccaporti solo per impartire ordini, intimare di stare zitti, colpire sulla fronte una madre il cui bambino non smetteva di piangere. Afrah doveva nascondere il cellulare: era riuscita a portarlo con sé sfuggendo ai controlli, non voleva privarsene. Dal quarto giorno di traversata lo strumento era servito anche ad altro: Afrah digitava velocemente, cercava di mettersi in contatto con Tahir. I messaggi partivano, si perdevano nell’etere sparati da quel minuscolo puntino in mezzo al mare, ma alla fine arrivavano? Tahir riusciva a leggerli? Afrah se lo chiedeva, ci rimuginava, ma aveva anche cose più importanti a cui pensare.
Mentre Karima e Rashida si lasciavano andare, chinavano la testa e si conformavano alla rassegnazione collettiva (a volte lanciavano qualche grido, qualche lamento, il loro unico segno di ribellione per quella situazione dolorosa), lei scrutava il suo smarthpone, con la batteria ridotta al minimo aspettava che si attaccasse a una rete. Quando succedeva non perdeva tempo, collegandosi alla rete rintracciava la rotta, quella percorsa e quella futura. Il risultato era sempre lo stesso: stavano andando alla deriva.
Gli scafisti, pur di aggirare le zone controllate dall’autorità, aveva intrapreso una rotta tortuosa. Si navigava in acque poco sicure, soggette ai rovesci atmosferici, alle violente tempeste, si navigava per giorni e giorni e le ore nella stiva si allungavano, con uno sputo d’acqua potabile, col poco cibo che erano riusciti a imbarcare. La prima volta che aveva comunicato le sue considerazioni c’era stata una sommossa: gran parte dei profughi avevano iniziato a battere contro la porta sprangata, a invocare il nome degli scafisti, si stava sfiorando l’ammutinamento. Poi la porta si era aperta una scarica di mitra aveva battezzato il soffitto. Minacce che non lasciavano scampo riempivano lo spazio angusto, la porta si era richiusa. Tutti avevano capito il messaggio. Attorno ad Afrah si era fatto il vuoto, non l’avrebbero più ascoltata. La porta si apriva sempre più di rado, e sempre per un lasso di tempo breve. I marinai non prestavano più attenzione alle richieste dei passeggeri.
Poi era successo: il calore aveva invaso il ventre della nave, lo schiocco di un’esplosione aveva rotto la notte, così come le fiamme che illuminavano a giorno il luogo della tragedia. La porta si era aperta e stavolta non si sarebbe chiusa. I primi a raggiungere il ponte scorsero in lontananza la scialuppa degli scafisti che si allontanava con agilità. Nel momento di difficoltà avevano lasciato il loro carico in balia dei marosi. Si guardarono fra loro, stavano per morire, scattò il panico.
Afrah aprì gli occhi: due bambini le passarono accanto, zuppi fino al petto. L’acqua guadagnava centimetri minuto dopo minuto, i bambini le ricordarono i suoi fratellini piccoli e cercò di afferrarli per condurli in salvo. Essi fraintesero il gesto e si divincolarono, sparendo anche loro nella calca del ponte. Messaggio ricevuto: ognuno deve badare a se stesso.
Afrah accese per l’ultima volta il telefono. Ormai la batteria segnava il 2%, aprì la conversazione con Tahir e digitò il resoconto degli eventi delle ultime ore, inviò il messaggio. Poi buttò il telefono nell’acqua che già superava la cintola, non sarebbe servito più a nulla. Prendendo coraggio si affacciò sul ponte e guadagnò il parapetto. Si guardò indietro e vide la disperazione sui volti dei suoi compagni di viaggio, poi come molti altri si buttò fuoribordo. Il gelo la accolse nel suo abbraccio, si trovava a contatto con il freddo primordiale del mare. Tentava di nuotare, ma i vestiti la intralciavano.
Poi le vide. Non pensava che sarebbe successo, eppure le vide. Vide Karima e Rashida a pochi metri da lei: le chiamò, non risposero. Le due si stringevano per mano e galleggiavano, i volti bluastri e la bocca semiaperta. Quando una sorsata d’acqua penetrava in quegli anfratti non protestavano, non avrebbero potuto: erano morte. La consapevolezza investì Afrah, il gelo che le si rapprese nel cuore era cento volte più potente di quello delle acque in cui era immersa. Stava guardando le sue amiche galleggiare, annegate. Stava guardando il suo futuro. Chiuse gli occhi e si lasciò andare, pregò per l’ultima volta.
Il ragazzo
Non si riesce a trovare una bottiglietta d’acqua ad un prezzo accettabile. Costano troppo. Ne approfittano perché è un luogo di transito, la gente non si ferma, se ha anche un bisogno primario il guadagno può essere massimo, è calcolato ogni centesimo di profitto. O perché qui stanno meglio, è uno standard di vita più alto, tutto costa molto, e questo è un metodo benedetto dai cari e vecchi ricchi di questo Paese, che hanno trovato come diventare più ricchi e non solo – questa è una raffinatezza –, hanno trovato come fare per tenere lontano i miserabili, i più disgraziati, i poveri. Quanto li odiano, i poveri.
Prima di partire non aveva pensato a questo, era eccitato per il viaggio e per gli incontri che poteva fare. Lo aveva intuito vagamente o per sentito dire. Aveva capito che i prezzi erano diversi rispetto a casa, ma è stato un problema che non si è posto più di tanto. Ora ha sete. I distributori automatici potrebbero soddisfare questo bisogno, ma ha deciso di non spendere più di due euro per una bottiglietta d’acqua di una marca che non riesce nemmeno a leggere, e non si trova nessuna moneta addosso, ha controllato tutte le tasche. La testardaggine è utile fin quando non ti trovi nel momento del bisogno, questo misura la tua reale volontà. Forse doveva dare ascolto ai genitori, ma è stato un viaggio organizzato in fretta e senza aver chiaro cosa sarebbe accaduto dopo. Potrebbe chiedere qualcosa ai passeggeri appena scesi insieme a lui. Non conosce la lingua. Come comunicare? Sente proprio la gola riarsa, gli dà fastidio la bocca. Sete, sete, sete. Non ha pensato di portarsi qualcosa dietro. Non sa come chiedere ed esprimere questo bisogno, ha paura che potrebbero prenderlo per un esagitato, un criminale, uno che ha cattive intenzioni. Muovendosi in modo strano potrebbe attirare l’attenzione degli addetti alla sorveglianza. Un terrorista… Una persona che è venuta a turbare l’ordine di questa società. E i ricchi non gradiscono di essere turbati. E allora vi alziamo il prezzo delle bottigliette d’acqua.
Porta con sé i bagagli e prosegue fino ad una zona di raccolta. Potrebbe incontrare persone che hanno il suo stesso bisogno, condividere la stessa necessità, trovare un aiuto. Avverte ora non solo la sete, ma un’inquietudine che non riesce a definire. È partito per un viaggio con l’intenzione di stare meglio, allontanarsi anche solo per un periodo limitato. Non aveva previsto questo turbamento. Sete e angoscia, non è un arrivo da ricordare. Teme addirittura di essere osservato. Avverte gli occhi delle guardie di sicurezza addosso. L’asfissia degli interminabili controlli di sicurezza, file di gente come non ne aveva mai vista. È smarrito. Sente il loro odore. Avverte la loro paura, svegliandosi dal torpore che lo aveva accompagnato fino a quell’istante. (Non si sa se è destinato a durare, se sceglierà di vivere con una coscienza diversa, o ne rifuggirà, e sarà una scelta consapevole). Li guarda negli occhi, temendo per la sua identità, e quindi per la sua sicurezza.
Cosa lo aveva definito in tutti questi anni? Chi era veramente? La musica che ascoltava solo perché la ascoltavano tutti gli altri? Le serate passate nei locali ad annichilire il proprio corpo solo perché si deve fare così? Le persone che incontrava senza sapere nulla di loro, senza aprirsi alla loro vita, senza emozionarsi veramente sentendo il proprio orizzonte di vita allargarsi, solo perché era quella la comitiva, deve farsi vedere con queste persone? Che cosa è stato finora? Dubbio e frustrazione sono diventati i primi compagni che ha incontrato. Vedendo i migranti stanchi, nervosi, smarriti, provati dal viaggio, perché il loro viaggio è stato diverso, motivato da ben altre ragioni. In quel gruppo di persone nota un ragazzo che pare suo coetaneo. Non sa perché è colpito dalla sua presenza. Medita se può avvicinarsi, come farlo, se è giusto, come parlare, se sarà capito. Ha molta sete.
Tahir
Tahir deglutisce, sente caldo, anche se il sole di Budapest è pallido e il freddo penetra le ossa. Ma Tahir non ci pensa, ha la faccia contratta, sgorgano le prime lacrime. Sta tenendo fra le dita sudate lo smartphone, guarda le frasi del messaggio di Afrah. Una richiesta d’aiuto, frasi smozzicate, sgrammaticate, inframezzate da invocazioni, il periodare della pressione e del bisogno. Afrah ha rotto il silenzio, riceve sue notizie dopo settimane. E in quel messaggio sembra iscritta la fine. Afrah sta affondando, sta annegando. Tahir è impotente, piange con lo smartphone in mano.
I poliziotti lo guardano, lo scrutano, parlottano fra loro e sono pronti ad avvicinarsi, non tollerano scene di isteria nella stazione in cui i turisti sono costretti a sostare accanto alla miseria umana. Uno di loro fa un passo, Tahir lo vede con la coda dell’occhio e nonostante l’immane dolore cerca di darsi un contegno.
Ma adesso nel suo campo visivo non c’è più il poliziotto. La sagoma di un ragazzo bruno, intabarrato in un giubbotto costoso, gli si para dinanzi. Sulla faccia sembra avere un misto di curiosità, paura, pena e fatica. Tahir lo scruta, vi legge tali sentimenti (o almeno crede di decifrarli) e si stupisce di come siano simili ai suoi. Nell’angolo più remoto della mente gli spunta un sorriso amaro: questo ragazzo ha sofferto per cose futili, magari frigna per un cellulare rotto. Non sa cosa ho passato, non ne ha propria idea.
Eppure nel fondo degli occhi c’è un sentimento genuino, la pena e l’egoismo frammisti, protervi, ma incredibilmente veri. Tahir si meraviglia di quelle considerazioni, la notizia della morte di Afrah gli ha donato una strana lucidità. Il dolore dona consapevolezza, questo pensa Tahir, questo ha la forza di pensare, e anche lui se ne stupisce.
Ricomincia il pianto, le lacrime non possono fare a meno di sgorgare. Piange e guarda dritto negli occhi lo strano giovane, biascica qualche parola in arabo. Non sa neanche lui cosa sta dicendo, ma in fondo che importa? L’occidentale non riuscirebbe mai a capirlo, anche se dicesse cose sensate. Eppure l’occidentale risponde, anche lui articola qualche frase nella sua lingua. Poi fa una cosa che Tahir non si aspetta. Gli sfila la bottiglia d’acqua dalle mani e ne beve un sorso.
Tahir sgrana gli occhi: “Perché lo ha fatto? E’ talmente egoista?” L’occidentale sorride e gliela porge, semivuota. Tahir come sotto effetto di un incantesimo allunga le dita e l’afferra. Nel gesto le loro mani si sfiorano, la pelle bruciata dal sole e la cute biancasta dell’altro. I polpastrelli si toccano, un tocco gentile. Tahir avverte una strana e idiosincratica comunione. Tahir, guidato da un gesto involontario, afferra il polso del giovane. L’altro non tenta di sottrarsi alla stretta, anzi sembra assecondarla. Sono vicini. Potrebbero rimanere così per ore. Potrebbero parlare senza capirsi.
«Ehi, cosa fai? Lascialo stare!»
Due poliziotti si sono avvicinati, si frappongono fra il ragazzo e Tahir: «Non vogliamo problemi in questa stazione!»
I due abbaiano ordini all’arabo, lo rigettano indietro, lo riaccompagnano dal suo gruppo. Nella folla Tahir perde il contatto visivo con il ragazzo. Spera di non dimenticarlo. Spera di non essere dimenticato.
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