Buio / Controbuio – Tito Baldi, Simone Basciani, Francesca Muratori, Silvana Rovito

Se il profilo dei propri avversari è quello di giocatori aggressivi,
 è praticamente certo che la partita andrà avanti a colpi di buio
 e controbuio.
Sal Esmeralda, giocatore di poker

1.

«Carissimo, un’altra birra alla spina, te la faccio?»

«No dai, Giò, davvero, che poi a casa mia moglie fa la solita scenata».

«E che sarà mai, ‘na birra in più con un caldo così».

Giorgio sembrava sempre felice nel suo piccolo regno, mentre osservava i suoi clienti, rinfrescati dall’aria condizionata. Era il re della situazione, Giorgio, e a vederlo sembrava che nulla potesse scalfire l’espressione del suo viso sereno. Solo ai più attenti non sfuggiva l’incrinatura del labbro superiore, che lasciava trapelare il fastidio per alcuni clienti.

Ci stava proprio bene, quella TV con il collegamento a Sky; all’inizio aveva avuto il dubbio che un maxischermo al plasma stonasse, ma l’atmosfera da salottino però la pretendeva, quella TV. Un uomo con una tuta da jogging indicò il televisore e disse: «Alza un po’ il volume». Giorgio da dietro il bancone puntò il telecomando. L’audio delle immagini invase il locale. Si parlava ancora del trasferimento dei profughi a Casale San Nicola; quelli non ci volevano andare e la gente non ce li voleva.

«Li avete sentiti? I negri protestano!» commentò Gianni alla fine del servizio.

Dario iniziò con la solita tiritera: «Dico io, ma perché tutto ‘sto casino? Rimandateli da dove sono venuti, piuttosto! A casa nostra, li mandano… anche accompagnati col tappeto rosso! Giorgio, giurami che qui dentro non ce lo vedrò mai, un negro!»

Giorgio rispose mentre versava l’ennesima birra: «Ci puoi scommettere, carissimo» e impercettibilmente distorse il labbro superiore.

L’uomo con la tuta da jogging, che si chiamava Italo, era molto irritato dal fatto che nessuno gli chiedesse un parere: insomma, era stato lui a far notare la notizia. Ticchettava le dita sul bancone, indeciso se ordinare una birra oppure aspettare che Giorgio gliela versasse. Ogni giorno veniva alla solita ora e prendeva una doppio malto, e mai che Giorgio se lo ricordasse. E dire che era capace di ricordarsi l’ordine di uno che non veniva al bar da un mese, invece lui poteva aspettare quanto voleva, poi finiva che gliela doveva chiedere, quella maledettissima doppio malto.

Il ragazzo seduto sullo sgabello strizzò l’occhio a Dario, poi si voltò verso Italo: “Italo, tu che ne dici? Mo’ gli immigrati ci schifano!»

Con un mugugno, Italo rispose: «Lo sapete che ne penso… che se c’era chi dico io… eh! Altro che questo merdaio di razze, che non c’è più rispetto. Giorgio, mi versi per favore una doppio malto, grazie. Ma se comandassi io… tutti secchi, tutti secchi! oh.. eh, mh!»

«Ecco la tua doppio malto, carissimo, e non ti agitare troppo che te parte ‘na coronaria».

Risero tutti. Ogni volta, gli chiedevano una cosa e poi tutti a ridere; non lo sopportava. A dir la verità, Italo non sopportava quasi nessuno, lì dentro. Stavano sempre a fargli battute sul suo lavoro, ma loro cosa ne sapevano. Lui puliva le strade dalla merda degli stranieri, lui teneva pulito il mondo. Era un operatore ecologico e quelli continuavano a chiamarlo spazzino. Ma alla fine erano i suoi amici, almeno lì al bar, anche se trovava non ci fosse mai niente da ridere sulle cose di cui scherzavano. Sembrava che tutti avessero perso la memoria, come se le strade fossero sempre state così, ma lui no, lui si ricordava che prima le strade erano più pulite.

Scolò la birra perché era in ritardo: quella befana di sua madre lo aspettava per cena, e se lui ritardava anche solo di venti secondi la stronza si metteva ad urlare come una pazza.

«Oh, Italo! Stasera vedi se ti fanno pulì la via sotto casa mia che ce sta un letamaio che me sa se so’ trasferiti dei marocchini!»

Dario aspettava una risposta, si aspettava che Italo si mettesse a gridare con quella voce da fringuello accompagnata dai soliti movimenti goffi, ma gli andò male: Italo nemmeno si voltò.

Invece, sibilò tra i denti un “schifosi marocchini” e s’incamminò a passo svelto, anche se avrebbe pagato milioni pur di non dover rientrare in quella casa piena di muffa e odore di vecchio.

Un carattere di merda mamma l’aveva sempre avuto e da quando papà era morto s’era inebetita; c’aveva pure un soffio al cuore e il dottore aveva detto di farla agitare il meno possibile, ma lui non ci riusciva a stare calmo. Quella ogni volta che apriva bocca lo faceva impazzire e tutto il nervoso che covava, andava a finire su di lei.

Non fece in tempo a chiudere la porta che mamma dalla cucina già strillava che il mondo stava a diventà pericoloso, che lui non la proteggeva abbastanza, che non era riuscito a impedire che i terroristi si trasferissero nel loro palazzo, che papà – pace all’anima sua – non l’avrebbe mai permesso, che l’avrebbero uccisa perché era sempre in casa da sola…

Tutti i propositi di delicatezza passarono in secondo piano: «Che stai a di’ a ma’? Calmate cazzo! Cos’è, una delle tue solite crisi?»

«No, Italo, è tutto vero! Ho incrociato sulle scale ‘na mezza negra col fazzoletto azzurro sulla testa che scendeva dal piano di sopra. Italo, sta a progettà de uccidermi, so’ sicura!»

«A’ ma’, sei rincoglionita! Io non te reggo più!» Italo urlava forte, anche se sapeva che ancora un po’ alla madre sarebbe scoppiato il cuore. Lo guardava con la faccia bianca come un cadavere, eppure lui non riusciva ad abbassare la voce. Più ci pensava e più gli veniva da urlare: «A’ ma’, cristo, adesso calmati! Sarà quella che s’è trasferita qua da poco. Che vuoi fa’, ma’, mica so’ terroristi quelli».

La vecchia impallidiva sempre più, il respiro affannoso e il terrore negli occhi. Niente di strano: aveva passato tutto il pomeriggio da sola a rimuginare con la sua testa malata, dopo un po’ si sarebbe quietata come sempre.

«Ti prego stai calma, cazzo, ma’, respira! Manco te cagano quelli. Sei ‘na vecchia scema senza un soldo, chi dovrebbe aver desiderio di farti fuori? Sempre problemi mi devi fare, sai che devo andare a lavoro, quindi datte ‘na calmata e portami il piatto di pasta – che hai fatto il sugo di carne? No? A’ ma’, lo sai che quando torno dalla palestra mi servono energie. Voglio il sugo di carne quante volte te lo devo di’!»

Mezz’ora dopo, con quell’insulsa pasta al burro sullo stomaco, Italo si avviò verso la sede. Nel frattempo rimuginava sugli eventi della giornata e su tutte le scocciature che, insieme a quella dannata pastasciutta, gli gonfiavano lo stomaco. Giunto ai vicoli vicino alla stazione venne travolto da una zaffata di tanfo, urina mista ad alcol e vomito. Era lì che quegli schifosi passavano le loro giornate.

«Sono sozzi e insozzano le strade” borbottava tra sé. «Senza alcun rispetto per chi su queste strade ci lavora… tanto loro non hanno mai lavorato, c’è lo Stato che pensa a loro…»
Un grido femminile lo ridestò: «No! Al ladro! Aiuto!»

Italo girò l’angolo e corse incontro alla ragazza che tirava a sé la borsa cercando di calciare lo scippatore, ma quello non mollava la presa. All’avanzare di Italo col pugno alzato, fuggì.

«Dio santo, grazie, la devo ringraziare davvero signore. Io, io non so come avrei fatto se lei non…» La ragazza parlava a tratti, tremando.

«Si figuri signorina, sta bene? Ma mi faccia capire, che è successo, chi era? Vuole andare al commissariato?»

La ragazza iniziava a normalizzare il respiro, ma non quello sguardo, che era un misto tra terrore e ammirazione. Italo non aveva mai visto un sguardo simile.

«No, non importa il commissariato, grazie, ho il ragazzo che abita qua vicino. Ma se non c’era lei. Manco l’ho visto in faccia quello, ma sono sicura che fosse uno di quegli stranieri. Dio, grazie, è stato coraggiosissimo, mica tutti c’avrebbero avuto il suo coraggio. Grazie ancora».

Dopo avere accompagnato la ragazza Italo tornò al suo lavoro, travolto da sensazioni strabilianti che non era in grado di distinguere. Il volume della vita era schizzato improvvisamente al massimo.

Aveva fermato un’aggressione, salvato una persona. Aveva fatto la differenza. Spazzando con maggior vigore realizzò che se era bastato così poco per riuscirci, allora si poteva davvero fare qualcosa. Poteva fare qualcosa. Altro che povera Italia, poveri sarebbero stati i suoi nemici, tutti quegli stranieri che terrorizzavano le strade, che terrorizzavano sua madre.

Si sorprese per non averci mai pensato prima: avrebbe agito nell’ombra per liberare la città. Era così semplice. Vigilare. Quel ruolo avrebbe reso il suo lavoro davvero completo, gli avrebbe permesso di ripulire le strade non solo rimuovendo la sporcizia, ma anche dando una lezione a quelli che la sporcizia la portavano. Avrebbe convinto quella gente ad andarsene. Gli sembrava quasi di osservarsi dall’esterno mentre diceva qualcosa come: “Avete finito di spaventare la brava gente! Avete finito! Dillo ai tuoi amici, dillo a tutti! Adesso ci penso io a voi”.

Tornato a casa, il pensiero era ancora in strada, con quelle immagini davanti agli occhi. La sua missione era chiara: anche se non sapeva ancora come, sapeva esattamente cosa doveva fare. Gli serviva solo un tocco di classe. Tirò fuori una vecchia calzamaglia scura e si affrettò a fargli due buchi per gli occhi e cucirgli sopra una delle toppe con la bandiera dell’Italia che aveva nel cassetto. Così era proprio bella, semplice e genuina. Potente, vibrante di un’energia magica, toccarla lo faceva stare bene. Quell’oggetto racchiudeva infinite potenzialità. Italo lo fissò per un altro minuto, quindi, prima di mettersi a letto, lo calò sul volto, e tutto diventò più chiaro e giusto: non c’era più sua madre, non più la delusione, la solitudine, il dolore, il senso di impotenza. C’era solo Volontà, la sua.

Intermezzo

26/07/2015

Dalla gazzetta locale

Un uomo, un immigrato dal Bangladesh, è stato fermato in tarda notte da un aggressore mascherato in periferia. Nessuna ferita riportata. L’uomo dice di essere stato immobilizzato con un coltello alle spalle, e che l’aggressore doveva essersi nascosto tra i cassonetti dell’indifferenziata; questi avrebbe poi farfugliato parole incomprensibili e concitate il cui senso sembrava essere: “Non fatevi più vedere qui”.

01/08/2015

Dalla gazzetta locale

A una settimana dalla enigmatica aggressione a un immigrato, si ripete un episodio di violenza notturna contro stranieri nel nostro quartiere. La vittima, un ragazzo marocchino, racconta con spavento: «È sbucato fuori da dietro un’edicola, sono sicuro che mi stesse aspettando. Mi ha messo il coltello alla gola, voleva ammazzarmi! Poi ci ha ripensato, e mi ha messo in un angolo e… mi ha fatto spogliare, nudo, sì. Diceva che era un messaggio per i miei amici».

Il ragazzo è stato poi lasciato andare via senza vestiti, non prima di esser stato derubato della catenina d’oro che teneva al collo. La vittima dell’aggressione ha aggiunto: «Aveva degli occhi da animale! Vedevo solo quelli, perché aveva la faccia coperta da una specie di calzamaglia con la bandiera italiana cucita sulla fronte!»

02/08/2015

Nel Bar da Giorgio

Italo era particolarmente gioviale quella sera. Troppo.

“È successo qualcosapensò Giorgio mentre lo osservava avvicinarsi al bancone. Il barista, poi lo salutò: «Ciao carissimo, che t’è capitato oggi eh?»

Italo sorrise. Dio mio, era così sbagliato vederlo sorridere in quel modo. Era una faccia che non ci si aspettava di veder sorridere, perché era giusto che non lo facesse. Quel tipo era troppo toccato nel cervello per potersi permettere di stare bene.

«Ma… sapessi…» rispose perdendosi con lo sguardo oltre il bancone. «Niente di speciale» concluse con uno scintillio feroce negli occhi.

Nessuno si sarebbe aspettato che quel timido e impacciato ometto potesse essere pericoloso, nessuno eccetto Giorgio, la cui mente lavorava come una registratore di cassa, il ticchettio delle rotelle celato dietro grandi sorrisi di facciata. Giorgio era abituato a certi comportamenti, gestiva il locale da anni e sapeva cosa aspettarsi da tutta la sua clientela, ma quella sera c’era qualcosa che proprio non tornava. Qualcosa era cambiato, lo sentiva: «Non me la racconti giusta, caro. Che, hai trovato ‘na buona ragazza, eh?» rise ammiccante.

Italo sorrise, abbassando lo sguardo senza rispondere.

«Mi sa che c’è bisogno di festeggiare eh? Tiè, guarda, offre la casa» disse Giorgio il quale, nello stesso momento, pensava tra sé e sé: “Offre la casa, sì. Mi ripagherai con una confessione di come hai ammazzato il gatto del vicino o vinto alla lotteria, vero? Non hai combinato casini nel mio quartiere, vero maniaco di merda?”

Gli versò un bicchiere di amaro, colmo fino all’orlo. Italo bevve compiaciuto, sorseggiando in silenzio. C’erano pochi clienti quella sera, iniziavano le ferie, e anche Giorgio avrebbe chiuso di lì a pochi giorni per andarsene in crociera con la giovane moglie. Ma non era alle ferie che stava pensando: tutte le sue energie erano concentrate nel disinvolto tentativo di stordire Italo. Giorgio parlava e riempiva il bicchiere, parlava e riempiva ancora, e Italo era così lusingato che continuava a bere e a bere e a bere e a ridere forte.

Arrivati all’orario di chiusura non era rimasto più nessun altro cliente. Italo ormai rideva per qualsiasi cosa, e Giorgio con lui, scandiva risate potenti come pugni sul tavolo.

«E insomma, capisci…” bofonchiava Italo «il Potere! La Volontà! Ti… ti senti queste cose dentro e… pium, come al cinema no? Pium! Tutto finto, tutto falso… aah come si sta bene, tutto svanisce…”

«Come al cinema caro, proprio come al cinema. Ma svanisce dove?»

Italo smise di ridere e lo guardò per un attimo: «A Carnevale» disse solenne Italo «con le frappe della mamma e… e…»

Giorgio lo stava perdendo, l’occhio calava: «E cosa, caro? Che ti è successo stasera caro?»

Un bagliore di sorriso emerse dalla nebbia alcolica: «E c’è qualcuno che si occupa di noi… mhmh… ssssssssh! Tutti a casa, come si diceva… clandestini e stupratori, shhhhh! Altro che i politici, eh? Eh, ci sono io in giro adesso, eh?» Finì la frase a un palmo dal bancone, poi la testa crollò sulle braccia incrociate e il respiro si fece lieve nel sonno.

Giorgio torreggiava su di lui, ora, senza testimoni, con aperto disgusto sul viso. Aveva capito a cosa si riferiva. Non se ne parlava molto, ma se sui internet seguivi le pagine giuste, se ci tenevi davvero al tuo quartiere, insomma, certe cose le venivi a sapere. Calò una mano su Italo, delicatamente: «Ehi, è ora della nanna, eh? Che dici?» sussurrò.

Italo rialzò la testa strabuzzando gli occhi e assaggiandosi i baffi. Per un attimo sembrò un grosso, stempiato bambino appena sveglio: «Sei un amico, Giorgio» disse sorridendo, e si incamminò ciondolando fuori dal bar.

Il barista, a quel punto, si lasciò andare ad alcune considerazioni: “Cristo santo… beh, ci si poteva arrivare che era lui quel pazzoide maniaco. E credo che domani leggerò qualche altra notizia in proposito. Che infame. Ma cosa si è messo in testa di fare, dico io? Così scombina tutto. L’ordine è importante, e l’ordine vuole che ci sia una chiara divisione dei compiti e dei territori. Ci si lagna, si va avanti. Non si fanno storie. Ma guarda se nel quartiere, dove i miei figli vanno a scuola, devo avere in giro uno così. No, così non va proprio…”

Erano passati solo pochi minuti, quando entrò una clientela del tutto inedita: tre ragazzi di dubbia italianità. E sobrietà. No vabbè…” pensò Giorgio, il quale poi disse loro: «Siamo in chiusura ragazzi…».

Incurante dell’avviso, con una orrida canzone hip-hop a fargli da colonna sonora da uno smartphone, uno dei tre prese una birra dal frigo e si accostò al bancone spalleggiando: «Facci bere, vecchio!» disse girandosi per ammiccare ai suoi compari che ridevano di ammirazione.

Giorgio sospirò: «Va bene, cari, va bene, però consumate fuori per favore, eh?»

Il ragazzo si girò di scatto e sbatté un pugno sul bancone. Nell’immobilità generale, oste e giovane si fissarono, mentre la musica ritmata riempiva il vuoto tra loro: «Non mi vuoi qua dentro perché non sembro italiano» insinuò il ragazzo.

«No, caro. Vedi…» rispose Giorgio.

«Non mi vuoi qua dentro perché NON SEMBRO ITALIANO». La voce del ragazzo era stridula. “Dannazione” pensò Giorgio mentre continuava a sostenere lo sguardo dell’altro, uno sguardo che voleva essere gelido ma che sapeva tanto di un cubetto di ghiaccio tenuto troppo tempo dentro un cocktail. “Ma guarda che serata mi tocca oggi…” continuò a riflettere. Espirò, poggiando una mano sul cassetto dove teneva la pistola. Non la usava da tanto tempo, ma ne era sempre consapevole. Ogni volta che si trovava dietro quel banco a servire, sapere di avere la pistola a portata gli dava la carica per essere gentile con tutti. «Caro» esordì lento, serio negli occhi, mentre i bordi delle labbra si piegavano all’insù «ma certo che puoi consumare. Ma certo!» Disse così e non si mosse.

Il ragazzo indietreggiò sbeffeggiante, aprì la bottiglia di birra e la iniziò a svuotare per terra, tenendola come se stesse orinando. Guardava Giorgio con occhio ebete, mentre i suoi amici gridavano di approvazione e divertita sorpresa.

Giorgio ansimava con la mano sul cassetto della pistola, nel tentativo di mantenere la calma. Si passò una mano sul volto: «Ma che cosa volete da me, ragazzi?» Dalla bottiglia di birra scivolarono le ultime gocce giallastre sul pavimento. «Oh adesso dispiace vero? Adesso dispiace vero?» domandò il ragazzo. Ridacchiava: «Beh, adesso quelli come noi la sera fanno quello che gli pare. Adesso vi dispiace?»

Giorgio sospirò, sforzandosi per tirar fuori il suo tono migliore: «Ragazzi, dai! Vi capisco…».

«Tu non capisci proprio un cazzo!» gli ringhiò contro quell’altro.

Nessuno rideva più. Il ragazzino spaccò la bottiglia con un gesto violento, fracassandola contro un tavolo. Fissava Giorgio, stavolta con uno sguardo leggermente diverso da prima. Più caotico.

«Ragazzino… caro… penso sia ora tu debba uscire…» disse Giorgio.

«Col cazzo!» rispose il giovane.

Uno dei compari fece un passo in avanti: «Bujar, dai! Il vecchio si sta pisciando nei pantaloni, andiamo”. C’era un tono divertito in quella voce, ma era più che altro accondiscendente. Bujar lo ignorò. «Vaffanculo! » urlò a Giorgio avvicinandosi con i resti della bottiglia frantumata in mano.

Giorgio aprì il cassetto e poggiò una mano sul ferro.

«Sì!» continuò Bujar «vaffanculo a te! Vaffanculo a tutti i tuoi vicini! Stasera di nuovo! È in ospedale capisci? Gli ha maciullato una gamba solo perché voi italiani siete degli stronzi!»

Era sempre più vicino.

«Chi è in…?» stava per chiedere Giorgio, quando la sua calcolatrice interiore iniziò a segnare una serie di coordinate, e a impostarne di nuove. Stava iniziando a capire da dove arrivava tutto questo, e nella sua immaginazione prendevano forma come in una partita a scacchi i possibili scenari futuri, caratterizzati da troppa confusione tra le parti, troppo disordine, pericolo. D’un tratto le rotelle si fermarono, rendendo afferrabile un’idea che gli piaceva molto, un piano riordinatore.

«Bujar… smettila dai…» disse un altro ragazzo prendendolo per un braccio.

Bujar si girò e gli sputò in faccia, facendolo arretrare: «Vaffanculo anche a te! Wallah, giuro su Dio, ora a questo lo sfregio com’è vero che siete tutti degli stronzi!»

Giorgio doveva agire. Strinse la mano intorno al manico dell’arma, ancora nel cassetto. Non gli piaceva l’idea di mostrare quella pistola, troppi guai, ma lo avrebbe fatto, oh sì che lo avrebbe fatto, qualora non avesse avuto più alternative. “O la va o la spacca” pensò e poi disse: «Ragazzo, ehi, facciamo uno scambio, eh, che dici? So una cosa grossa, io, che vi piacerà sentire. Io vi passo l’informazione preziosa, voi tre non vi fate mai più rivedere qui in giro. Mai più».

Bujar si era fermato e lo guardava accigliato: «Tu non ci dai ordini, vecchio… E comunque, che cosa sai, forza?»

«So chi è il figlio di puttana che vi aggredisce» disse Giorgio. Lo sguardo del ragazzo era intenso, stava riprendendo lucidità insieme all’interesse. Stava funzionando. “Bene” pensò Giorgio.

03/08/2015

Dalla gazzetta locale

Il vigilante mascherato ha colpito ancora, dopo solo due giorni dall’ultimo episodio. È accaduto ieri in prima serata, presso una stazione dell’autobus. Grazie a un ragazzo che ha filmato la scena con il cellulare abbiamo finalmente una immagine del vigilante, con la sua caratteristica calzamaglia e tricolore; lo vediamo colpire con una mazza da baseball due giovani immigrati che aspettavano alla fermata. Uno dei due è riuscito a fuggire dopo essere stato violentemente colpito alla spalla.

Il video si ferma a questo punto, quando il ragazzo si è dato alla fuga dopo essere stato notato. L’altra vittima è attualmente ricoverata in pronto soccorso con gravi fratture alle gambe e al bacino. I familiari hanno riferito che l’aggressore, mentre schiacciava con uno scarpone le ossa fratturate della vittima, abbia dichiarato di non voler più vedere stranieri in giro per le strade di notte. Mentre si aspetta di vedere come si muoveranno le autorità in merito, la paura si diffonde tra la popolazione locale di immigrati. È comprensibile: l’aggressore può essere chiunque dei loro vicini italiani.

2.

Bashir era convinto che ci mancasse una TV, all’internet point: l’aspetto era importante e quel posto, senza l’aspetto giusto, sarebbe rimasto il ritrovo dei soliti quattro gatti marocchini. Stava iniziando a prendere a cuore quel piccolo spazio che era riuscito ad avere in gestione, e desiderava che le persone del quartiere lo frequentassero un po’ di più – gli italiani, non la sua gente, che la sua gente lo frequentava anche troppo.

«Ragazzi smettetela di urlare e per favore togliete quei piedi dal tavolo! Ma dico io, sempre accampati qua dovete stare?» disse Bashir. Ma niente, era come parlare al muro. Bashir non sarebbe mai riuscito a far diventare quell’internet point un posto per italiani, anche perché – e lo sapevano bene quei ragazzetti – in fondo non lo voleva davvero: quella era la sua gente, quelli erano i figli dei suoi fratelli, e anche se lui era diventato un cittadino modello con un lavoro, un permesso di soggiorno valido, una casa in affitto e una moglie, rimaneva legato alla sua comunità.

Era ora di chiudere, ma come smuoverli quelli là? Ogni giorno la stessa storia: «Bujar, li togli quei piedi dal tavolo o te li devo tirare giù io? E fuori con quelle birre che sembra che non ve l’abbia mai detto nessuno che l’alcool è haram». Era anche periodo di ramadan, quindi sarebbe stato haram ancora di più, ma se lo tenne per sé, che tanto a parlar di religione con dei ragazzi, lo sapeva bene, non ci si cavava un ragno dal buco.

«Si può sapere cosa c’è anche oggi da festeggiare?» chiese Bashir.

«Bashir, oggi festeggiamo! Ieri siamo andati nel bar da Giorgio, volevo sfasciare tutto, giuro su Dio che lo facevo, wallah, ma poi gli altri si sono cagati sotto. Comunque se l’è presa paura il vecchiaccio».

«Bujar, ma veramente? Ma quanto sei cretino? Credi che così arrivi da qualche parte?»

Che poi Giorgio era anche il buon uomo che gli aveva dato l’internet point in gestione, ma quelle testoline vuote mica lo sapevano. Bashir continò: «Te lo dico io dove arrivi: in galera! Credi di fare un dispetto a chi? All’Italia? E voi? Amir, se lo dico a tua madre che bevi e che fai queste cose? Pensi che sia contenta? Perché non cerchi un lavoro e ti stai tranquillo?»

Neanche aveva fatto in tempo a finire la frase che quello zingaro di Bujar era salito in piedi sul tavolo sbraitando scomposto: «Cosa dovrebbe dire invece la madre di Amir, eh, Bashir, che l’altra settimana è stato aggredito da un italiano di merda che lo ha umiliato, nudo, e gli ha pure rubato la catenina?”

Amir, che fino ad allora era rimasto fisso sull’accendino a spezzettare un tocco di fumo, si alzò di scatto, strattonò Bujar per un braccio tirandolo giù dal tavolo con sguardo severo e si rivolse a Bashir: «Lo so, hai ragione, ci dobbiamo mettere calmi Bashir, hai ragione, adesso usciamo. Dai Bujar, vieni. Ragazzi, andiamo al campetto».

Uscirono tutti fuori senza farsi pregare nemmeno un po’, ed era strano perché quella scenetta ogni giorno faceva perdere a Bashir circa mezz’ora. C’era qualcosa che non quadrava. Mentre spegneva le luci e chiudeva la serranda Bashir continuava a guardare insospettito i ragazzi, insospettito soprattutto da come Amir avesse preso il controllo della situazione zittendo quel delinquente di Bujar. Di solito uno scatto del genere avrebbe portato ad una rissa: Bujar non permetteva a nessuno di dargli ordini; eppure questa volta non aveva detto niente, anzi, ora era lì fuori che ascoltava Amir in silenzio. Qualcosa non andava.

Bashir chiuse l’internet point e si avvicinò ai ragazzi con il pacchetto di Camel light in mano: «Dai prendetene una, su».

«Ma ne hai poche, Bashir».

«No no, finitele pure, tanto neanche dovrei fumare sotto ramadan, ma chi ci riesce. Dai, allora ditemi un po’, avete fatto casino ieri eh? Mi ricordo anch’io, alla vostra età, con il papà di Momo e Musta, andavamo sempre ad ubriacarci nei bar; e tua mamma, Musta, ogni volta mi sgridava disperata che diceva che gli rovinavo il marito! Ci divertivamo anche noi, sapete?»

Bashir non vedeva l’ora di correre a casa da Samira, e in più non gli piaceva per niente parlare di quel periodo della sua vita. L’avrebbe volentieri cancellato dalla sua memoria se avesse potuto; ma era consapevole che quel periodo gli fruttava il rispetto di molti. I ragazzi stavano tramando qualcosa e lui voleva scoprirlo, a costo di ritardare l’ora della doccia e di fingersi fiero di cose di cui fieri vi era da essere poco.

Dopo un’ora di chiacchiere e di racconti eroici era tornato ad essere uno di loro, anzi di più: il loro esempio. Bujar non poteva tollerare che gli si rubasse la scena, e Bashir giocava proprio su questo. Infatti, all’ennesimo racconto eroico, Bujar sbottò: «Sì, abbiamo capito che eri uno serio, ma adesso cosa fai? Eravate tutti dei seri, ma adesso guardatevi: tutti che avete paura anche solo di alzare la voce, e loro credono che ci possono fare quello che vogliono. A me non me ne frega un cazzo, loro mi devono rispettare e infatti a me mi rispettano, sai? Sai cosa sappiamo adesso, grazie a me?»

Amir invece scuoteva la testa, ormai non lo si poteva più fermare.

«Ieri il vecchio del bar mi ha detto il nome del razzista di merda che crede di farci paura, perché ha capito con chi aveva a che fare. Il tipo si chiama Italo Esposito e adesso scopro dove abita e poi gli facciamo una bella festa a questo Italo, vedrai come glieli facciamo piacere gli immigrati, wallah

Ecco cosa c’era sotto. Italo Esposito. Dove aveva già sentito quel nome? Samira lo stava aspettando e lui non voleva sbilanciarsi sulla faccenda senza averci ragionato prima, così si avviò verso casa. Bujar era un esaltato, e gli altri gli sarebbero andati dietro come capre. Questa era la volta buona che finivano in galera. Credevano di ottenere qualche diritto in più facendo così? Qualche giustizia? Presto avrebbero capito che per andar d’accordo con Mamma Italia l’unica cosa da fare era stare zitti, tener la testa bassa e fingersi scemi. Insomma, comportarsi come un italiano qualunque.

Bisognava ammettere che questa storia degli agguati nel quartiere aveva smosso un po’ anche lui, riportandogli alla mente i lunghi anni passati tra una rapina e l’altra, tra una mensa dei poveri e i binari della stazione, senza un pezzo di carta che lo autorizzasse a stare lì, ad esistere; finché Allah gli aveva dato la possibilità di mettersi in regola e di trovare Samira.

Samira… massì, chi se ne importava di tutte queste storie, di questo caldo afoso e della fine che avrebbero potuto fare quei ragazzi: ancora due passi e avrebbe raggiunto la sua nuova casa e sua moglie, che con il suo bellissimo sorriso avrebbe rimesso tutti i pensieri in ordine. «Mmmmh, che profumino di tajine» disse entrando. Guardò Samira: era abituato al suo solito velo turchese con i ricami dorati cuciti a mano, dietro al quale si era nascosta per anni prima del matrimonio, quindi adesso rimaneva incantato ogni volta che vedeva quei lunghi capelli neri.

«Ciao amore. Sì, stasera ho preparato il tajine per non pensare ai pazzi razzisti qua intorno. Indovina un po’? Ne abbiamo una proprio al piano di sotto che è entrambe le cose, per non farci mancare niente». Samira sorrideva, anche se da ridere c’era poco, ma Bashir l’amava soprattutto per questa sua ironia. C’era sempre da imparare con lei.

«Ah si?» le chiese.

«Non te ne avevo parlato?» domandò Samira. «L’ho incontrata anche la settimana scorsa. Credo sia la madre del signore, quello scoordinato, dai. Quello sempre in tuta. Mentre facevamo il trasloco si era presentato… come si chiama? Ah sì, Italo Esposito, capito quale? Ecco, sua madre: l’ho incontrata sul pianerottolo, mi ero avvicinata per presentarmi e quella è corsa a ritirarsi dietro la porta ansimando con uno sguardo terrorizzato. Secondo me era convinta che fossi arrivata apposta per decapitarla. Amore che c’è, sei stanco? Vai a farti una doccia che io apparecchio la tavola!»

Bashir aveva la gola secca, per un attimo gli sembrò anche di non riuscire a respirare. Passando, diede un bacio a Samira per non farla preoccupare, poi si avviò verso il bagno con il cuore che gli batteva troppo forte. D’altra parte, se la soffiata che avevano fatto a Bujar era vera, al piano di sotto non viveva solo una pazza razzista, ma anche un violento aggressore con chissà quali piani di “pulizia”. Né Samira, né la doccia e nemmeno il tajine riuscirono a tranquillizzarlo.

Quella notte ebbe problemi a prender sonno. Vedeva nel buio i suoi ragazzi finire in galera, vedeva inasprirsi i pregiudizi verso i suoi amici, sua moglie e i suoi futuri figli. Vedeva un uomo con una calzamaglia nera in testa sfondargli la porta di casa armato di una mazza da baseball.

No, non sarebbe andata così. L’unica soluzione che gli veniva in mente, tuttavia, era rispolverare un personaggio di sé che sperava di aver sotterrato per sempre.

L’indomani Bujar e il suo gruppetto di amici si era dato il solito appuntamento all’internet point per godere dell’aria condizionata. Quel giorno però, quando furono tutti, si appostarono fuori dal locale, parlottando tra di loro all’ombra di un alberello urbano. Bujar si stava evidentemente vantando di qualcosa con il suo pubblico. C’erano solo due clienti dentro il locale: Abras, che scorreva come al solito annunci di lavoro, e Naim, che chattava con il fratello lontano. Brava gente. Bashir si permise di uscire per una sigaretta: «Ehi grand’uomo, gliele hai suonate a quel tale allora?» fece rivolto al gruppo di ragazzi.

Bujar si girò subito venendogli incontro: «Non ancora, vecchio, ma solo perché non abbiamo ancora capito dove abita. Ma ci siamo vicini, sai?»

Bashir finse spavento allargando gli occhi: «Fate sul serio allora! E poi cosa pensate di fare? Avete già deciso la disposizione dei letti quando sarete in prigione? Lì non dovrete neanche perdere tempo su internet per star freschi, eh?»

Una ragazza del gruppo accennò un riso. Bujar si girò un attimo a guardarla bieco.

«Vaffanculo» disse poi rivolgendosi a Bashir e faceva per dargli le spalle, ma Bashir lo incalzò: «Oh, chiedo scusa, davvero. Volevo solo dire che magari poteva servirvi una mano esperta».

Bujar si girò di nuovo verso di lui: «Una mano esperta?» lo schernì. «Vecchio, come va con tua moglie? Mi sa che ormai la tua mano è esperta solo a questo, eh?» disse fingendo di masturbarsi. Gli altri risero.

Bashir avrebbe voluto mollargli un pugno in faccia per aver solo osato accennare a Samira, ma si contenne strizzando con forza la sigaretta: «Ah, giovane Bujar, immagino che tu mi capisca. Quante te ne sei sparate quando ti hanno preso per quel furtarello, eh? Mi chiedo proprio come abbiano fatto però. Dev’essere stata una vera sfortuna. Sai quante volte mi hanno preso a me invece?» domandò al ragazzo buttando per terra la sigaretta. «Nemmeno una» si rispose da solo.

Bujar lo guardava in cagnesco.

«Gente» continuò Bashir «io sto con voi, davvero. Odio quell’infame che tira agguati tanto quanto ognuno di voi, e potete credermi. Anche io ormai ho paura a trovarmi la notte da solo in giro per queste strade. E questo bastardo si sta facendo sempre più audace. Cosa farà la prossima volta? Quando lo beccheranno? Quanto dovremo ancora sopportare?»

Fece una pausa per guardarli tutti, uno ad uno, soddisfatto di averli in pugno. Si avvicinò ancora, per parlare a voce più bassa: «Io so dove abita con esattezza. Io ho l’esperienza che serve. Sentite, lasciate la questione nelle mie mani, voi potrete continuare a bighellonare come niente fosse». Ora parlava molto piano, ma si erano tutti radunati intorno strettamente: «Io posso cercare delle prove in casa di quest’uomo, delle prove per incastrarlo e denunciarlo, e fargli pagare quel che deve».

«Te lo scordi, vecchio» disse Bujar. «Tu non vai da nessuna parte senza di me».
«E me» disse Amir.

Bashir li studiò per un attimo; ci si poteva pensare. Tutto sommato sarebbe potuta andargli molto peggio quella trattativa.

3.

Le poche luci di lampione che filtravano dalle tende facevano supporre che fossero entrati nel salone, come Bashir aveva previsto facendo riferimento alla planimetria del suo appartamento. A differenza di quello, tuttavia, questo odorava di una quieta mistura di polvere, legno vecchio e broccoli. Di nuovo gli si sciolse in bocca un acido sapore di colpa. Samira era proprio lì su che dormiva, e lui le stava facendo questo, tradendone la fiducia, ricascando in quel genere di attività a cui aveva detto per sempre no grazie a lei.

Bujar iniziò ad aprire un cassetto, alzandosi la calzamaglia dal viso per vedere meglio. Bashir si accorse di essersi distratto. Male, questo non gli era mai capitato in gioventù. Si avvicinò al ragazzo e gli tirò giù di nuovo la calzamaglia in modo brusco. Bujar era spaventato e si vedeva; un dubbio tardivo si insinuò in Bashir: «Dì, hai messo i tuoi amici agli ingressi di sotto vero?» chiese in un bisbiglio.

«Sì, sì, al cancelletto, sì» protestò Bujar nervoso.

Bashir lo afferrò: «E ai garage?»

Nessuna risposta. Lo lasciò andare scuotendo la testa e sospirando. Con un po’ di fortuna se la sarebbero cavata anche con mezzo palo, ma era meglio se facevano in fretta. Amir era più disciplinato. Aveva paura, si vedeva, ma la affrontava con più determinazione. Bashir li guardò entrambi nella penombra e fece segno di seguirlo.

***

Quella notte Italo non ce l’aveva proprio fatta ad andare a lavoro, quindi, per strada, aveva chiamato per darsi malato. Si sentiva su di giri quella notte e voleva… non sapeva cosa voleva, ma sapeva che l’idea di lasciare l’attrezzatura a casa era stata pessima. Sentiva l’urgenza di tornare in azione, di fare qualcosa di esemplare e ricevere una ricompensa più grande dell’affetto di Giorgio. Presto sarebbe stato amato.

Era ossessionato da un regalo che aveva ricevuto la sera prima. L’aveva trovato quella mattina nella tasca interna della felpa della tuta, dopo un’altra sera di eccessive bevute al bar. All’inizio ne era terrorizzato, voleva disfarsene, ma alla fine il fascino di quella pistola lo aveva conquistato. Un completamento perfetto. Un segno d’amore. Arrivato a casa, decise di parcheggiare la macchina in garage, stavolta.

***

Sottili fasci di luce si agitavano nel buio, mentre ombre irrequiete rovistavano tra gli scaffali. Bashir si era messo a cercare nella camera da letto, mentre i ragazzi erano rimasti nel corridoio. Non gli ci volle molto per trovare quel che cercava. Si affacciò dalla porta e illuminò il volto dei due ragazzi per attirare la loro attenzione e direzionarli verso la stanza in cui si trovava. Nel silenzio più totale la torcia di Bashir andò a evidenziare con il suo alone l’ultimo cassetto di un mobile, aperto, dove spiccava una calzamaglia con dei buchi per gli occhi e una toppa della bandiera italiana cucita in fronte.

Amir mosse la sua torcia per il resto della stanza, quindi si avvicinò al comodino accanto al letto per prendere qualcosa. Bujar e Bashir rimasero a guardare la sua schiena immobile. Si girò solo quando Bashir lo toccò su una spalla, rivelando una catenina d’oro nel palmo aperto.

«È proprio quello stronzo» sussurrò Bujar.

Bashir si accorse che Amir non stava guardando lui, bensì Bujar.

***

Italo saliva la rampa di scale che portava dal garage al pian terreno, e da lì ai piani superiori. L’appartamento era provvisto di ascensore, ma non era un tipo da ascensore, lui. Salì al primo piano, poi al secondo, quando notò qualcosa di imprevisto. Una delle due porte al secondo piano era aperta, e tutto il pianerottolo era bagnato. La signora Margherita stava alla porta in camicia da notte: «Signor Esposito! Che macello! Mi sono svegliata per andare in bagno e il pavimento era tutto allagato, ho casa tutta allagata, tutta allagata!»

«Ah… mi spiace… Ha individuato la perdita, signora?» chiese lui.

«Non lo so, ho chiuso subito il rubinetto centrale… ma che disastro. Guardi qua, guardi qua!»

«Vedo, vedo!» fece lui timidamente guardando per terra. «Penso di poter dare una occhiata alla faccenda… insomma se può servire…».

Tra l’altro, ne aveva di tempo.

***

«Poggia la catenina, ho detto» sussurrò Bashir «e andiamocene da qui».

Amir non lo ascoltò e si avvicinò a Bujar. «E adesso?» chiese all’amico.

«Adesso gli facciamo trovare una bella sorpresa, wallah» disse Bujar.

Bashir si allarmò: «Ragazzi! Frena, questo non era stabilito. Gli accordi erano che si entrava, si verificava e si usciva. Poi si pensa a come continuare, poi!»

Bujar lo guardò per un attimo e lo ignorò, quindi accese la luce della stanza come nulla fosse. Bashir gli fu addosso e lo sbattè al muro: «Stupido poppante! Vuoi mandare tutto all’aria? Dobbiamo uscire ora!» sussurrò concitato.

«Uscire? Sì, ma non prima di aver lasciato un messaggio» disse Bujar a voce troppo alta. Spintonò via Bashir con violenza, che inciampò e cadde. «Guai a te se provi a fermarci» aggiunse Bujar.

Una voce debole e tremula provenne dal corridoio: «Italo… sei tu, caro?» Passi attutiti da ciabatte strusciate. Bashir era in panico. Era tutto sbagliato, non avrebbe dovuto portarli con sé, non sarebbe dovuta andare così! Fece appena in tempo ad alzarsi, che sulla soglia della stanza apparve un’anziana signora leggermente ingobbita e stretta in una leggera vestaglia rosa. Appena li vide le si dilatarono gli occhi all’inverosimile, quasi che dovessero uscirgli dalla testa; guizzavano da ognuno di loro all’altro, mentre il colore la abbandonava. Bujar fece un passo verso di lei. Lei urlò.

***

Italo sentì un urlo acuto e tremendo che gli fece accapponare la pelle. Era sua madre. Restò di sasso per un secondo, con gli occhi sgranati, quindi scappò via dall’abitazione della signora Margherita. «Chiamo la polizia!» disse lei, ma lui non la sentì. Era già sulle scale.

***

L’anziana signora era per terra, stesa, la faccia contorta, la carnagione pallida, gli occhi persi nel vuoto. Bujar la fissava immobile. Anche Bashir era sotto shock, ma fu il primo a riprendersi: «Fuori! ORA!» riuscì a dire. La sua voce spezzò la paralisi generale. I due ragazzi si guardarono intorno spaesati. In quel momento la porta d’ingresso alla loro destra si aprì e una sagoma umana si stagliò controluce. Gli occhi di Italo, spalancati e feroci, li guardarono uno a uno, fermandosi infine sul corpo steso della madre. Senza smettere di guardarla, estrasse con una lentezza orribile la pistola da dietro i calzoni.

Per un attimo gli occhi di Bashir incontrarono quelli stravolti di Italo; poi la pallottola gli passò attraverso, cancellando ogni pensiero. Mentre si accasciava contro una porta vide Bujar gettarsi addosso a Italo urlando. Italo sparò di nuovo, mancando il bersaglio, e i due iniziarono a lottare. Anche Amir si lanciò nella rissa. Un altro sparo assordante. Bashir riuscì ad alzarsi per vedere il corpo di Italo a terra, il cranio distrutto, sangue ovunque. Bujar e Amir ansimavano sopra di lui.

Quanto era durata la lotta? Quanto tempo era passato? Bashir non si era neanche accorto delle sirene fuori dall’edificio. Era tutto finito.

Epilogo

Era una tiepida mattina di settembre, le ferie stavano finendo per tutti, il traffico aumentava e la vita riprendeva i ritmi consueti. “Tutto sommato è stata una buona estate” pensò Giorgio. Il locale era quasi pieno, ma non del tutto, il giusto. Erano tornate molte facce conosciute, chi un po’ più abbronzato, chi con qualche storia in più, delusioni, affetti. L’argomento che tornava con maggior frequenza era “il fattaccio”, come lo chiamavano tutti. Quel brutto episodio avvenuto a inizio agosto, finito su tutti i giornali e telegiornali nazionali. Presto si sarebbe spento anche questo focolare di curiosità, sarebbero sorti nuovi argomenti per cui prendersela, nuove scuse per vedersi e litigare e cercare ragioni per fuggire. Per Giorgio era così: li guardava sorridente, i suoi clienti, parlava a ciascuno da amico, ma per lui erano tutti un grande gregge in fuga. Una fuga circolare, che non va da nessuna parte. L’importante è sentire, a fine giornata, di essere scappati da non si sa bene cosa e, ancora più importante, condividerlo.

«Si vedeva che era uno squilibrato, eh, ricordi quella volta…»

«Non mi sono mai fidato di lui…»

«Eppure, sembrava… sembrava…»

«E questi stranieri, sempre più aggressivi! Io dico che si dovrebbe…».

«Dicono che quello ferito, il capo, si sia ripreso…».

«Duplice omicidio e furto con scasso!»

«Ahah, chissà cosa avrebbe detto Italo di…».

“Peccato che per organizzare la giostra ci abbia dovuto rimettere la pistola” pensava Giorgio quella mattina. “Non sarà facile trovarne un’altra pulita. E devo trovare anche un altro banglaqualcosa per l’internet point. Che seccatura!” Servì un caffè a un uomo che non voleva tornare a lavorare. Il flusso di pensieri, nel frattempo, non si arrestava: “Ma si può fare, si può fare. Un piccolo costo per essermi sbarazzato di quello psicopatico di Italo. Mi bastava finisse in galera, con quella pistola, ma così è anche meglio”.

“… non fumi più, caro? Fai bene, fai. Tu invece, caro, le solite Camel, eh? Piacciono anche a me, eh, c’ho sto vizio” disse ad alcuni clienti mentre la sua mente continuava a vagare: “E anche quei teppistelli stranieri, al fresco per chissà quanto, qualcuno mi vuole bene lassù. D’altronde uno si impegna e ottiene, con calma e perseveranza, sì. Ma, aspetta, chi è quella?”

Era entrata una donna, una cliente inusuale. Una donna con un velo turchese a ricami dorati legato intorno al capo. Studiò l’ambiente per un attimo e si diresse al bancone:
«Buongiorno signore, bel locale ha qui. Posso farle qualche domanda?»