Ad ogni costo – Angela Zangaro, Soukaina Elouardi, Yili Liu

La storia della mia vita è una storia atipica che ha inizio in Bangladesh, uno stato dell’Asia ricco di colori. È lì che sono nata e ho vissuto serenamente fino all’età di sette anni. Abitavamo vicino alla città di Sylhet ed ero convinta, forse perché ero piuttosto piccola, che tutto andasse per il meglio. Mio padre aveva un lavoro modesto ma che sembrava riuscisse a sfamare la nostra famiglia; mia madre, invece, era una casalinga. La nostra famiglia era molto affiatata e ci riunivamo sempre per festeggiare insieme. Frequentavo la scuola e avevo degli amici, come tutti i bambini della mia età. Molti amici dei miei genitori si erano trasferiti nelle città europee, soprattutto per aprire dei negozietti, e un giorno anche mio padre decise di fare lo stesso partendo per l’Europa. Vedevo mia madre soffrire per la sua lontananza ma allo stesso tempo vedevo anche la nostra vita migliorare.

Quando la mattina mia madre ci preparava per andare a scuola, ci ripeteva di essere buoni e diligenti, di non rovinare i nostri vestiti nuovi, di avere cura dei nostri libri perché nostro padre era lontano e lavorava tanto per noi. Questa storia si ripeteva ogni giorno: colazione, pranzo e cena. Mia madre secondo me, non sapeva se essere felice perché la nostra vita era migliorata o triste perché suo marito era lontano e veniva a trovarci solo due volte all’anno. Quando i miei genitori si sentivano al telefono, mia madre parlava piano e spesso dopo aver chiuso la cornetta piangeva. Mio padre le ripeteva di andare via dal Bangladesh ma lei temporeggiava e pregava più del solito da quando lui non c’era e chiedeva consigli alle mie nonne. Insomma, capii che qualcosa non andava… e infatti presto mia madre ci riunì tutti e ci disse che avremmo dovuto raggiungere nostro padre perché aveva bisogno di noi.

Pensai che tutto sommato andasse bene, avremmo avuto una nuova casa e anche se avrei fatto fatica a vedere i miei amici sarebbe stata comunque un’esperienza poco traumatica. Nei giorni che precedevano la partenza, vennero spesso a trovarci i nostri parenti, ci abbracciarono e baciarono come se non ci avrebbero più rivisto e questo atteggiamento non lo comprendevo! Uscita di casa, affrontai un lungo viaggio per giungere a Dacca e, arrivata all’aeroporto, capii che fuori dalla mia porta c’era un mondo che in realtà non conoscevo come credevo. Il viaggio fu strano e lungo, ma visto che non mi ero mai spostata dal mio paese, pensai che fosse quella la normalità.

Mio padre ci attese all’aeroporto di Palermo, nel frattempo riuscì a comprare una macchina spaziosa ma la casa non mi piacque. Quella città era strana e diversa da quella da cui provenivo; per la forma delle case, per i colori, per tutto. Anche la gente lo era e c’erano macchine, autobus e motorini ovunque. Le donne non erano vestite come mia madre o come le mie zie. Non eravamo gli unici diversi, c’erano anche tanti africani e tra noi stranieri sembrava ci fosse allo stesso tempo un misto di simpatia e antipatia. Credevo che loro fossero in grado di capire il mio stato d’animo.

I primi tempi furono molto difficili e ora che mi reputo italiana, non riesco nemmeno a trasmettere lo stupore che provai nella vita di tutti i giorni. Mia madre ci stringeva forte la mano quando uscivamo di casa e a volte non riusciva nemmeno a farsi capire dal panettiere. Se ci ripenso oggi mi viene da ridere. Per fortuna non eravamo completamente soli; un anno e mezzo prima erano arrivati a Palermo mia zia Dulali, sorella più piccola di mio padre, e suo marito. Le cose tra di loro non andarono bene, lui la trattava male e lei non sopportava che tornasse a casa ubriaco, così decise di mettere fine al loro matrimonio. Mio padre non accettò questa decisione e continuava a pensare che lei fosse troppo libertina; mia madre, al contrario, andava d’accordo con la zia e cercava di tenere unita quella parte di famiglia che era in Italia.

I primi giorni di scuola furono strani, ma dicono che i bambini si adattano prima degli adulti e infatti pian piano strinsi delle amicizie e imparai la lingua. Il fatto che i miei genitori fossero un po’ severi, che io non conoscessi bene il luogo e che fossi ancora piccola mi permise di dedicarmi solo alla scuola e così riuscii a non ripetere gli anni scolastici. Alla fine della terza media scelsi di iscrivermi al liceo linguistico e così cominciò la mia adolescenza. Non riuscivo più a capire i miei genitori, in quel periodo sembrava che io fossi l’unica contenta di vivere a Palermo; nonostante fosse stato mio padre a portarci in Sicilia.

Insomma, nell’inverno dell’ultimo anno di liceo, mentre a scuola si sceglieva la meta della gita, i miei genitori scelsero la città dove aprire un altro negozio. Ce lo dissero una sera a cena, senza mezzi termini ed io me ne andai nella mia stanza. Apriti cielo! Credo che mia madre abbia inventato per me un malore per giustificare il mio comportamento. Sentivo mio padre parlare con i miei fratelli delle cose che avrebbero trovato a Roma colpendoli nei loro punti deboli, infatti loro sghignazzavano contenti mentre io in camera ero arrabbiatissima.

Non dimenticherò mai come passai quelle giornate, poche, visto che ormai i miei genitori ci avevano preso la mano a trasferirsi da un posto all’altro o forse già sapevano di questa decisione da tempo. Sembrava di rivivere la stessa scena per la seconda volta; l’unica differenza era che in quel momento sapevo cosa stesse succedendo ed ero abbastanza matura per controbattere ed affermare che non avevo nessuna intenzione di abbandonare la Sicilia. Ricordo che durante i preparativi c’erano scatoloni ovunque e la sala era piena di valigie che da lì a poco sarebbero state riempite da pezzi della nostra vita. La casa si stava svuotando di ogni ricordo, non c’erano più le nostre foto appese al muro, i miei disegni di quand’ero bambina e le cartoline che lo zio ci mandava da ogni parte del mondo. Gli scatoloni, oltre a proteggere gli oggetti più fragili, custodivano anche i miei ricordi, in particolare quello del giorno in cui partimmo dal Bangladesh per venire in Italia. L’idea di quel trasferimento mi faceva rivivere gran parte di quei momenti, che allora erano di incomprensione ed ora invece di sconforto e ansia. Io non stavo preparando le mie valigie, dovevo studiare.

Per papà sembrava tutto così scontato, ma per me non lo era affatto. Non è stato facile ricostruire una vita in un luogo completamente nuovo, dove avrei dovuto mantenere la cultura e le tradizioni con cui ero cresciuta, e allo stesso tempo rispettare quelle presenti in Sicilia. Sapevo che i sacrifici che papà faceva erano per noi ma non poteva dire di pensare al nostro futuro quando in realtà non teneva conto delle nostre decisioni. Io non volevo trasferirmi a Roma, volevo rimanere in Sicilia. Nonostante le difficoltà e le tante novità a cui ero andata incontro, lì avevo trovato parte di quello che in Bangladesh avevo lasciato.

E a Roma cosa avrei trovato? Mi spaventava l’idea di dover vivere in un luogo nuovo per la seconda volta. Non volevo litigare con i miei genitori ma dovevo fargli cambiare idea anche se sembrava impossibile. In quel momento la mia carriera scolastica era l’unica arma per convincerli a farmi rimanere. Quell’anno frequentavo la quinta superiore, avrei avuto l’esame di maturità sei mesi dopo e non era logico trasferirmi in un’altra scuola. Mi ero affezionata ai luoghi che frequentavo e mi sentivo finalmente in grado di legare ad essi la mia identità. Mi ero talmente abituata a vivere a Palermo che mi sembrava impossibile abbandonare le stradine del centro, i miei amici, il mercato della domenica mattina, l’atmosfera magica che la città assumeva a Natale, la zia Dulali che sarebbe rimasta completamente sola e soprattutto il mare dove mi rifugiavo nei momenti di sconforto. E infatti è lì che andai quando decisi che avrei fatto di tutto per rimanere a Palermo. Quella scelta non fu facile presa a diciotto anni, quando vuoi che nessuno ti metta i bastoni fra le ruote, soprattutto chi dovrebbe amarti e aiutarti come i genitori.

Passò almeno una settimana prima che riuscissi a parlare con mio padre, ma mi ero ripromessa di farlo, non potevo stare zitta e andarmene con la coda tra le gambe. Dovevo farmi coraggio! Ormai mancavano un paio di settimane alla partenza, mio padre aveva pagato le ultime bollette e un suo amico lo aveva aiutato a cercare una casa a Roma. Mia madre invece passava le sue giornate a piegare vestiti ed incartare pentole, libri, quadri e qualsiasi oggetto in giro per casa. Erano così indaffarati che forse si erano dimenticati che la figlia maggiore non ne voleva sapere di trasferirsi.

Il giorno in cui parlai con mio padre, andai in cucina da lui e senza guardarlo in faccia gli dissi che non avevo nessuna intenzione di andare con loro a Roma. Mentre aspettavo che una sua risposta rompesse il silenzio, mia madre mi porse una foto che avevamo scattato con i nonni prima di venire in Italia e mi disse che è sempre difficile separarsi dalle persone più care. Secondo lei dovevamo rimanere uniti, non voleva che ci separassimo. Ridendo aggiunse che non sarebbe stato così traumatico e che anche a Roma avrei trovato i cannoli! Ricordo come mia madre riusciva sempre a strapparmi un sorriso, nonostante fossi triste. Alle parole dolci di mia madre, ci furono di risposta quelle autoritarie di mio padre che mi ricordò di avere degli obblighi nei confronti della famiglia e che anche in Italia, dove molto è concesso, rimanevo sua figlia e dovevo obbedirgli.

A diciotto anni però non poteva prendermi con la forza e caricarmi in macchina. Sapevo fin da prima di iniziare la conversazione che non ci sarebbe stato dialogo. Ero pronta a tutto pur di rimanere lì. Mia madre, come spesso faceva, mi disse di stare calma e iniziò a piangere perché non si aspettava da me quella reazione. Mio padre, anch’egli incredulo, convinto che con due cenni del capo gli avrei obbedito, si arrabbiò ma non lo dimostrò con le parole e disse a mia madre di farmi cambiare idea con le buone.

Quella notte pensai ad una soluzione per rimanere a Palermo. Quella casa sarebbe andata ad un’altra famiglia del Bangladesh, tra stranieri spesso ci si subaffitta case e ci si passa i lavori. Ho immaginato che non mi avrebbero dato dei soldi per sopravvivere e per i sei mesi successivi avrei dovuto studiare per gli esami. Se avessi preso il massimo alla maturità, avrei potuto partecipare ad un concorso per vincere una borsa di studio per l’università. Era quello il mio obiettivo e tutti riponevano le loro speranze su di me. Sarebbe stato un vanto per tutto il mio liceo e la borsa di studio mi avrebbe permesso di avere un alloggio in uno studentato e di essere autonoma. Non ne avevo mai parlato ai miei genitori, a loro dicevo il minimo indispensabile della scuola, non riuscivano a stare dietro ai miei discorsi, parlavano l’italiano solo quando era necessario.

Il giorno dopo a scuola, lo dissi ad alcune mie amiche e anche la mia insegnante di italiano volle intromettersi quando vide le ragazze mettersi le mani sulla bocca ascoltando le mie parole, come per far capire che stava succedendo qualcosa di grave. Quella che ne soffrì di più fu Lucia che era la mia migliore amica.

Ebbene, in quel momento ebbi l’illuminazione. La mia insegnante, la più pettegola di tutte, involontariamente, mi avrebbe aiutata! E infatti le raccontai che i miei genitori, egoisti e retrogradi com’erano, avevano deciso di strapparmi da Palermo ad un passo dal diploma e dalla borsa di studio che tutti aspettavamo, lei compresa! Non volevano proprio sentire ragioni, soprattutto mio padre che era il solito padre musulmano autoritario capace solo di esercitare il suo potere sulle figlie femmine.

Rincarai un po’ la dose con le lacrime e i paroloni, presto lo seppero tutti e la prof ci mise poco ad andare nel negozietto dei miei genitori per chiedere loro come mai avessero preso una decisione simile, a sei mesi dal diploma. Fui abbastanza attenta a chiederle di non parlare per scaramanzia della borsa di studio e invece i miei piani erano altri…

L’insegnante, come prevedevo, litigò con i miei genitori, disse loro che non si poteva portare via a sei mesi dal diploma una ragazza in gamba come me. Mi volevano in un negozietto aperto fino alle 22 di sera o dietro una bella cattedra di italiano? Mio padre si infuriò e alzò la voce dicendo all’insegnante che non doveva impicciarsi. Tutti uscirono dai propri negozi e mio padre fece la sua brutta figura. In questo modo avevo raggiunto parte del mio obiettivo. Mio padre aveva torto, lo sapevano tutti e gli avrebbero dato del filo da torcere per il tempo che restava. In quel periodo lavorava con i miei genitori in negozio un ragazzo bengalese, questo dimostrava che gli affari andavano bene. Era solo per manie di grandezza di mio padre che ce ne saremmo andati.

Quella sera i miei fratelli mi avvisarono che ero nei guai, infatti quando i miei genitori tornarono a casa mio padre mi ordinò di dire a scuola che io stessa avevo deciso di partire perché era giusto così. Si arrabbiò soprattutto perché avevo parlato degli affari di famiglia con degli estranei e perché la mia insegnante si era intromessa in questioni che non la riguardavano affatto. Non avevo intenzione di fare ciò che mi chiedeva e glielo dissi. Non se ne parlava proprio. Gli dissi che doveva prendersi le sue responsabilità, aveva preso una decisione sbagliata? Bene, doveva accettarne le conseguenze!

L’indomani a scuola mi dissero che la mia insegnante di italiano aveva organizzato una protesta contro i miei genitori, saremmo dovuti andare nel nostro quartiere con dei cartelloni con gli slogan più improbabili. Alla mia insegnante non importava di me come ragazza, in realtà, ma come potenziale vincitrice della borsa di studio. Se io avessi vinto la borsa di studio, i miei professori avrebbero avuto la loro fetta di notorietà. Inoltre la mia insegnante, vedeva in me una sorta di gallina dalle uova d’oro, nonostante non sopportasse i musulmani!

Non potevo andare anch’io alla protesta, mi avrebbero cacciato di casa e mia madre non se lo meritava; ma era l’unico modo che avevo per far capire che facevo sul serio! Quindi decisi di partecipare!

La mia insegnante era anche la vicepreside e quindi poteva permettersi di portare tutta la classe alla protesta. Arrivati davanti al negozio, vidi che c’era anche la gente della parrocchia e il prete, figuriamoci! Per farla sporca, avevano anche chiamato la tv locale che ne approfittò per fare i soliti servizi contro gli immigrati. Insomma, la scena era questa: noi ragazzi e ragazze con dei cartelloni e la prof davanti a tutti che urlava slogan vari. Mio padre uscì dal negozio senza parole, iniziò a lanciare la frutta che era esposta fuori contro di noi, disse che erano tutti pazzi e che non avevano nessun diritto di fare quello che stavano facendo. Nonostante offese anche me, presi coraggio tra la folla e urlai anche io le mie ragioni, mi sentivo coperta da tutte quelle persone. Lanciandoci la frutta addosso mio padre si mise completamente dalla parte del torto e l’insegnante iniziò ad urlare che nessuno doveva più andare nel suo negozio per protesta, perché stava strappando dalla Sicilia, ad un passo dagli esami, una ragazza di 18 anni che avrebbe potuto cavarsela da sola. Mi aspettavo che nel nostro quartiere si sarebbe alzato un polverone ma non pensavo che sarebbe venuta addirittura la tv locale.

Non tornai a casa per il pranzo e mia madre mi cercò per tutto il giorno. Piuttosto cercai Lucia che non era venuta a scuola; la chiamai più volte senza ottenere risposta finché finalmente mi rispose e mi disse che non era venuta per non trovarsi nei guai con suo padre che era completamente d’accordo con il mio. Lei, al contrario di me, si sarebbe spostata volentieri da Palermo ma suo padre glielo impediva perché troppo protettivo nei suoi confronti. Insomma, ci saremmo volentieri scambiate il posto.

Mia madre quel giorno non era andata al negozio, così nel tardo pomeriggio tornai a casa e parlai con lei, mi disse che era delusa del mio comportamento e che avremmo potuto risolvere la situazione senza un gesto simile. Mi disse che il ragazzo che aveva preso in gestione il negozio era molto preoccupato per come sarebbero andati gli affari dopo quella mattinata e che litigò con mio padre che era già abbastanza nervoso. Avevo fatto più danni di quelli che avevo previsto e perso anche l’appoggio di mia madre.

Quella sera mio padre era incontenibile, mi urlò di scegliere tra loro e Palermo, se fossi rimasta lì non sarei stata più sua figlia. Non ci credevo, mi crollò il mondo addosso. Presi tutti i miei libri e parte dei miei vestiti e me ne andai da mia zia. Pensai che per lei ospitarmi sarebbe stata una sorta di rivincita nei confronti di mio padre proprio perché anche lei aveva vissuto delle ingiustizie da parte sua. Dissi che me ne sarei andata di casa e che sarei andata dalla zia, per fare a mio padre un dispetto ancora più grande. Mia madre era disperata, mi chiese di non farlo mentre i miei fratelli non dissero una parola.

Andai da mia zia, era tardi ma mi aprì. Mi disse che mia madre le aveva già telefonato un paio di volte durante la giornata, loro si confidavano molto e l’ultima chiamata di mia madre risaliva a pochi minuti prima; per questo la zia mi stava aspettando. Sapevo di potermi presentare a casa sua a qualsiasi ora senza problemi, era dispiaciuta per mia madre ma per il resto mi appoggiava, anzi, derise anche un po’ mio padre immaginandolo arrabbiatissimo buttare la frutta addosso alla mia insegnante! Le spiegai dei miei piani e le chiesi se fosse stata disponibile ad ospitarmi per circa sei mesi, fino alla fine degli esami di maturità e di quello universitario. Mi chiese se mia madre sapesse delle mie intenzioni di rimanere a Palermo anche dopo gli esami e le dissi di no, le spiegai che era molto difficile passare quell’esame e quindi avere l’alloggio e l’anno accademico pagato. Le dissi di non far preoccupare invano mia madre, tanto non avrei passato l’esame. Lei non fu molto convinta di questa storia ma secondo me, in cuor suo, sperava che io rimanessi, nonostante non volesse fare un torto a mia madre coprendomi.

Mi disse che potevo restare. Sapevo che non avrei potuto contribuire economicamente in casa, quindi dissi alla zia che mi sarei occupata di tutte le faccende domestiche e della spesa. Appena trovato un lavoro, dopo l’università, l’avrei ricompensata. Mia zia avvisò mia madre che era tutto ok, che sarei rimasta lì per un po’ e che si sarebbe occupata lei di me. Mia madre rimase agitata e cercò di parlare invano con mio padre. Qualche giorno dopo mi portò tutte le mie cose sistemate per bene, si era fatta aiutare dai miei fratelli che però sembrava stessero dalla parte di mio padre. Lasciò dei soldi a mia zia e fece anche una bella spesa, le disse che mi avrebbe mandato dei soldi mensilmente per contribuire alle spese per i mesi in cui sarei stata da lei. Mi implorò però di raggiungerli a Roma finita la maturità, disse che capiva che la scuola è importante e sapeva che meritavo di finire gli esami a Palermo. Sapeva che io non ce l’avevo con lei ma con mio padre, però mi fece presente che lui era davvero molto arrabbiato. Mi fece promettere di raggiungerli a Roma, portò da mia zia quello che poteva servirmi per i mesi successivi e il resto lo avrebbe portato con sé anche contro la volontà di mio padre che diceva che non ero più sua figlia.

Secondo mia madre avrebbe cambiato idea, aveva solo bisogno di tempo e poi io avrei dovuto cercare di fare pace con lui, cosa che in quel momento non avevo affatto intenzione di fare. Dissi a mia madre che dopo gli esami sarei andata a Roma. Pensavo davvero di andarci, per stare con loro qualche giorno o anche due settimane. Sapevo che avrei avuto bisogno di vedere mia madre.

A scuola tutti erano contenti del fatto che non sarei più partita. I miei invece partirono, mio padre non mi salutò, non lo sentii più dalla sera in cui me ne andai di casa e andò avanti così fino agli esami. Ero molto ansiosa durante i giorni degli esami, ma avevo il sostegno della zia che mi incoraggiò a non mollare fino all’ultimo.

Finalmente mi ero diplomata e con il massimo dei voti, quindi potevo partecipare al concorso per la borsa di studio. La mia euforia però si scontrava con il patto che avevo fatto con mia madre: una volta diplomata dovevo raggiungerli a Roma. L’esame per ottenere la borsa di studio si sarebbe tenuto a venti giorni dal mio orale quindi dovevo temporeggiare con l’aiuto di qualcuno. Chiesi a mia zia di coprirmi quando avrei detto a mia madre di avere la febbre alta, questo mi avrebbe permesso di prendere tempo e fare anche l’esame per la borsa di studio. Lei mi disse che fin dall’inizio non avrei dovuto mentire a mia madre, le avrei dovuto dire chiaramente dei miei piani, ma alla fine mi coprì. Sarei rimasta a Palermo il tempo necessario per sostenere l’esame e se l’avessi passato, avrei messo di nuovo i miei genitori con le spalle al muro. Se invece non lo avessi passato, non me la sarei potuta prendere con loro ma solo con me stessa.

Quando arrivò il momento di concordare con mia madre il giorno del mio trasferimento a Roma, le dissi della mia febbre e lei si preoccupò, ma mia zia la rassicurò dicendole che l’avrebbe aggiornata tutte le volte che poteva. Studiai notte e giorno per quell’esame, sapevo già da mesi di quel concorso quindi non arrivai impreparata. Andai a sostenere l’esame, c’era una parte scritta e una orale. Capii subito che l’orale era andato piuttosto bene, per lo scritto invece dovevo aspettare qualche giorno. Furono dei giorni bruttissimi. Non dovetti faticare a fingermi malata con mia madre, ero davvero agitata e non stavo bene. Fu la mia famosa insegnante pettegola ad informarmi che ce l’avevo fatta!

Io, le mie amiche, mia zia, fummo tutte contentissime! Però come al solito, bisognava dirlo ai miei genitori, con mio padre non parlavo da mesi… quante bugie e quante cattiverie avevo fatto nei loro confronti. Non se lo meritavano. Sono stata una persona egoista, ho pensato solo a me stessa e ai miei sogni; forse come fece mio padre portandoci in Italia, quella che ora è la terra che amo.

Andai a Roma ma con una piccola valigia, giusto per il tempo che rimaneva prima dell’inizio delle lezioni. Mio padre non mi accolse bene eppure mia madre mi aveva detto che non sarebbe stato così, che lui avrebbe cambiato idea vedendo che ero pronta a trasferirmi a Roma e che avremmo chiarito. Invece la situazione degenerò e per l’ennesima volta non ci fu dialogo tra di noi. Non sapevo più come comportarmi con lui!

Mi cacciò di casa, io gli dissi che non meritavo quello che mi stava facendo e che il mio non era un capriccio. Tirammo fuori tantissime questioni, l’aggravante era anche il fatto che io stavo da mia zia e lui continuava a dirmi che avrei fatto la sua fine, sola senza la propria famiglia a proteggerla.

Io la difesi e difesi me stessa, dissi che ormai a diciotto anni ero libera di fare ciò che ritenevo opportuno e purtroppo la loro chiusura mentale mi aveva costretta a mentire perché non avrebbero mai capito le mie buone intenzioni e non avrebbero appoggiato i miei progetti. Alla fine chiedevo solo di poter rimanere a Palermo e studiare per il mio futuro. La discussione si fece sempre più aspra ed io uscii di casa piangendo senza sapere bene dove andare.

Mentre attraversavo la strada in fretta, un’auto si fermò per farmi procedere ma quella dietro non capendo il motivo della sua brusca fermata, la sorpassò colpendomi e facendomi cadere a terra. Sentito il tonfo, i miei si affacciarono alla finestra e corsero giù. Quella volta non era una bugia, mi ero fatta male sul serio ma niente di troppo grave, un’ambulanza mi portò in ospedale e con me venne mia madre. Appena ripresi i sensi le dissi di aver vinto la borsa di studio che mi avrebbe consentito di studiare a Palermo in completa autonomia. Si mise le mani in testa, non poteva crederci ma io pensai che era il momento giusto, tutto sommato stavo bene, ma lo spavento doveva esserle bastato per capire che la cosa più importante era la mia salute.

I dottori dissero che avrei dovuto tenere una gamba ingessata per un po’, capii che non avrei girato per le bellezze della città eterna, mia madre si sarebbe presa cura di me come piace fare a lei con tutti e i miei fratelli avrebbero scarabocchiato sul gesso bianco. Ma mio padre? Non si presentò in ospedale per i giorni in cui ero ricoverata per tutti gli accertamenti. Mia madre girò mezza Roma da sola per venire da me. Nemmeno quell’evento gli aveva fatto cambiare idea. A quel punto doveva capire, come aveva fatto mia madre, che l’importante era solo che io stessi bene.

Arrivò il giorno di tornare a casa, ma mio padre non mi voleva con loro. Mia madre, allora, inaspettatamente, disse che se non avesse voluto me, non avrebbe voluto neanche lei. Ad ogni modo non era molto credibile, tremava come una foglia nel dire quella frase. Mio padre l’accusò di essere diventata pazza, lei ribatté dicendo che quella casa era anche sua e che pure lei lavorava nel negozio e guadagnava dei soldi, quindi poteva ospitare sua figlia in casa sua. Comunque eravamo già sul pianerottolo ed io ero su una sedia a rotelle. Mio padre se ne andò al lavoro e non ci incontrammo spesso nei giorni a seguire, io ero segregata in quella che sarebbe stata la mia stanza e mia madre si occupava di me con cura quando non era al negozio.

Che sofferenza! Il caldo, il gesso che mi dava fastidio… in Sicilia sarei andata al mare e avrei anche potuto studiare per tenermi allenata… e invece, niente mare, niente amici, niente studio e niente Roma nemmeno per i pochi giorni previsti. In quel periodo parlai con mia madre che colse l’occasione per raccontarmi della sua vita a Roma senza di me e senza la zia Dulali che secondo lei si sarebbe dovuta trasferire con loro… anche se con me a Palermo non sarebbe stata più sola.

Una mattina, feci un movimento un po’ azzardato e caddi dal letto, non riuscivo più ad alzarmi, quel letto era altissimo e il gesso pesava, iniziai a lamentarmi chiedendo aiuto, ma in casa non c’era nessuno. Dopo un paio d’ore sentii la porta aprirsi e gridai aiuto! Era mio padre… bene, sarei rimasta lì ancora per molto pensai, invece mi aiutò e ridendo gli dissi che un po’ di cuore ce l’aveva anche lui!

Quando la sera raccontai tutto a mia madre, fu molto contenta. Lui tornato al negozio l’aveva avvisata dell’accaduto. Col passare dei giorni vedevo mio padre lentamente addolcirsi con me, anche se questo è un parolone per un uomo come lui; mia madre mi raccontò dello spavento che si era preso quando vide cosa era successo sotto casa, io avevo perso i sensi, non ricordo nulla ma lei mi raccontò tutto nei dettagli. Si era spaventato e probabilmente mi aveva perdonata o perlomeno aveva messo da parte un po’ del suo rancore anche se non me lo dimostrò affatto.

Così un giorno gli dissi che poteva smettere di far finta di essere arrabbiato con me perché tanto sapevo che si era spaventato per l’incidente! Lui borbottò qualcosa poi si zittì. La zia ci mandò per posta una copia dell’articolo sul quotidiano di Palermo che mostrava la mia foto e raccontava della mia carriera scolastica. Quell’articolo mi aiutò a fare pace con mio padre. Di molte cose non avevo colpa io e involontariamente, sono stata la vittima di chi voleva far sembrare i miei genitori i soliti musulmani bigotti.

Volevo raggiungere i miei obiettivi sì, ma non avrei calcato così tanto la mano, ho perso di vista la situazione che loro ci credano o no. Ormai ero ad un passo dal mio obiettivo e nonostante i sensi di colpa non mi sono fatta molti scrupoli… I miei genitori capirono cosa fosse davvero importante nella nostra vita e capirono che sarei stata sprecata in un negozio con loro a Roma.

Tolto il gesso tornai a Palermo e mi preparai per il mio primo anno universitario, sistemai per bene la stanza con l’aiuto di mia zia e iniziai a fare amicizia con gli altri ragazzi dello studentato. Ero agitata ma anche contenta per la nuova esperienza che mi aspettava!

Da quando i miei genitori erano convinti che la strada che avevo intrapreso fosse quella giusta, affrontai la vita in modo diverso. Fare pace con loro mi aveva dato lo stimolo per iniziare gli studi con il giusto ottimismo. A questo punto dipendeva tutto da me, sapevo che il percorso universitario non sarebbe stato facile; ma dopo tutta la fatica che avevo fatto per ottenere la borsa di studio dovevo mantenerla, impegnandomi al massimo e superando gli esami. Raccontarvi per filo e per segno come proseguirono gli anni universitari servirebbe solo ad annoiarvi. Gli esami sembravano non finire mai e io cercavo di fare di tutto per laurearmi in corso. Andavo a trovare i miei genitori almeno una volta l’anno, solitamente per le vacanze natalizie, nonostante la mia valigia fosse sempre piena di libri per la preparazione degli esami. Loro venivano a trovarmi d’estate, spesso mia madre veniva appena i miei fratelli finivano la scuola. Oltre alla distanza che ci separava, sapevamo che ognuno di noi aveva tanti impegni da portare avanti, io gli studi e mio padre l’attività, che tra l’altro andava a gonfie vele. Questo mi rendeva felice perché dopo tutta la fatica che aveva fatto se lo meritava. Sarebbe banale dire che gli anni passarono in fretta, eppure volarono.

Terminai la triennale ed iniziai la magistrale. Le mie energie erano in gran parte dedicate allo studio, ma cercavo anche di riservare un po’ di tempo agli amici, allo sport e durante le vacanze estive mi concedevo qualche visita alle bellissime città italiane. Crescevo e con me il sogno di diventare insegnante di italiano. Anche la magistrale era ormai agli sgoccioli e pian piano mi avvicinavo a quel traguardo che inizialmente mi sembrava solo un miraggio. Finita la magistrale rimaneva l’abilitazione all’insegnamento. Fu un periodo terribile, ero sempre stressata, immersa tra i libri e avevo paura di fallire e non raggiungere quell’obiettivo per cui inizialmente avevo voltato le spalle ai miei genitori.

Iniziai ad insegnare e le prime settimane furono difficili per le tante novità: l’ambiente, gli orari, il contatto con gli altri colleghi di lavoro, le assemblee. Lentamente però scoprii di amare l’insegnamento e che in fondo ero stata brava ma anche fortunata a trovare il lavoro che avevo sempre desiderato.

Una volta quando i miei vennero a trovarmi, il loro comportamento mi risultò abbastanza strano. Erano sempre indaffarati, uscivano spesso e sembrava quasi che stessero facendo qualcosa alle mie spalle. Le mie supposizioni non erano sbagliate, il loro gran da fare era dedicato ad una cosa che non mi sarei mai aspettata. Avevano avuto l’idea di inserire una giornata dedicata all’immigrazione all’interno del programma di cui si occupava ogni anno la principale associazione di volontariato della città. I portavoce dell’associazione furono contenti dell’iniziativa e cercarono di trovare il modo per inserire anche quest’evento tra i tanti presenti all’interno della loro agenda.

L’evento “Storie di giovani migranti” voleva essere un momento di dialogo tra le diverse culture e un modo per dare la possibilità a tanti giovani di raccontare le tappe più importanti della loro vita di migranti in Italia e gli obiettivi raggiunti. Chi l’avrebbe mai detto che proprio i miei genitori, a mia insaputa, avrebbero avuto l’idea per un evento del genere.

Papà aveva tanto insistito perché andassimo tutti insieme. Quella mattina mi svegliai prestissimo e mi preparai con cura come se sapessi che sarebbe stata una giornata particolare. E così fu; seduta come tutte le altre persone del pubblico, attenta e curiosa di sapere di chi fosse la prima storia ad essere presentata, rimasi stupita quando sentii pronunciare il mio nome.

«Per iniziare il nostro incontro di oggi diamo la parola ad una persona che Palermo la conosce molto bene e che ormai vive qui dall’infanzia. La nostra prima storia ci parla di una donna che oggi insegna italiano nella stessa scuola da lei frequentata. Prego, Sultana!»

In quel momento l’emozione era così forte che non sapevo cosa raccontare e soprattutto da dove partire a parlare della mia stessa vita. Pian piano mi rilassai, e capii che in fondo non erano i dettagli della mia vita a farne una storia ma quello che avevo imparato durante tutti questi anni.

Due settimane dopo il mio intervento all’evento, mentre riguardavo il video che i miei genitori mi avevano fatto, riportai su un foglio le parole esatte che dissi in quel momento. Rileggendole mi accorsi che dissi tutto e non dissi nulla: “Raccontare la propria storia non è mai facile, soprattutto se è stata così travagliata come la mia. In tutti questi anni tra le varie esperienze che ho vissuto ho capito quanto sia prezioso avere due nazionalità e culture. Non ho mai rinnegato le mie origini ma ho imparato allo stesso modo a convivere con le tradizioni che ho trovato in questo paese. Ho fatto tanti sacrifici per diventare un’insegnante di lingua italiana al liceo. A spingermi a fare questo lavoro, sono stati l’amore per l’insegnamento e il pensiero di poter ritrovare ragazzi stranieri nelle mie classi. Grazie alla mia esperienza, in parte posso capire come si sentono, cosa provano e le difficoltà che possono incontrare a scuola con i docenti e gli altri compagni. I genitori di questi ragazzi vengono in questo paese in cerca di una vita migliore, ma a volte i loro figli incontrano grandi difficoltà nel riuscire ad integrarsi e soprattutto hanno dei sogni che spesso i genitori non comprendono. Ricordo tutto quello che ho fatto alle spalle dei miei genitori per riuscire a rimanere a Palermo e riuscire a raggiungere questo traguardo per me enorme; ma so anche che senza mio padre che ci ha portati qui, non avrei mai lontanamente immaginato di vivere in questo paese. Per questo oggi il ringraziamento più grande va a loro, che rappresentano la parte più importante della mia vita”.

Quel giorno tra il pubblico riconobbi il sindaco e anche i miei studenti che parteciparono all’evento con grande piacere e mi portarono addirittura i fiori. La giornata si presentò piena di emozioni e nuove conoscenze. La mia storia e quella degli altri partecipanti dimostrò a pieno i sacrifici fatti per riuscire ad integrarci e a far parte della storia del nostro paese, l’Italia.

Eppure dentro di me sentivo anche un velo di tristezza, mi sentivo strana. In realtà cosa pensavano tutte quelle persone di me? Forse mi vedevano semplicemente come l’ennesima straniera venuta nel loro paese, che aveva studiato e che alla fine di tutto aveva “rubato” il posto di lavoro ad un vero italiano. Quando riflettevo e valutavo tutti i sacrifici che avevo fatto per raggiungere quello che oggi ho, la mia conclusione era che in realtà nessuno mi aveva dato una mano. Realmente avevo confidato solamente sui miei genitori e sulla mia forza di volontà. Un evento del genere rimaneva da un lato una fonte di positività perché permetteva l’incontro tra le diverse culture, però dall’altro ci metteva in cattiva luce.

Perché “Storie di giovani migranti”? È vero, siamo migranti, ma al di là di tutto io oggi mi sento una donna che ha studiato e raggiunto il suo obiettivo non perché straniera ma semplicemente perché aveva un sogno che voleva diventasse realtà. E questo sogno si è avverato in un luogo che per caso è stato l’Italia ma che poteva essere in un’altra parte del mondo. Se non avessi raggiunto questo traguardo forse non mi avrebbero nemmeno invitata all’evento, perché sarei stata una tra i tanti stranieri di Palermo o dell’Italia che non ha fatto niente di particolare nella propria vita. Ad ogni modo non posso dare la colpa ai miei genitori, loro avevano pensato a quest’iniziativa come qualcosa di positivo e l’avevano fatto perché fieri di me. Le loro lacrime quel giorno me lo confermarono.