Comme chez soi – Collettivo “Senzafiltri” (R. Pagano, I. Cecchini, S. Mauriello, G. Disabato, O. Briou)

Le dita scorrono sull’orlo della camicia a sistemare per bene i bottoni al loro posto. Soltanto in quel momento si rende conto di come la manica sinistra della giacca sia leggermente consumata sui bordi e qualche filo usurato cerchi di staccarsi da quel tessuto blu petrolio di infima categoria. Da quando ha indossato il vestito, la trama del tessuto ha assunto per lui le sembianze di una gabbia e più si specchia, più si sente ridicolo. Gli occhi scorrono sulla figura e faticano quasi a riconoscerla. Un doppio venuto fuori da una vita fa: lo sposo. Allora una dozzina di chili in meno, oggi una decina d’anni di fatica in più. Senza barba si sente nudo: era dal giorno dell’incidente che non si radeva con piacere, per paura di tagliarsi. Sullo specchio, un viso scettico.
– Mbé?    Fatti vedere un poco – sulla porta Maria si affaccia curiosa. Sorrisetto stupito sulle labbra, guarda le mani callose del marito che stiracchiano il completo per adattarlo al corpaccione – Che bello! Stai bene, visto?

– Eeeh, nu fior’, guarda: nu fi-o-re. – borbotta quello, spazientito – Pure stretto mi va. Non è il caso che vado, guarda, non è il caso. Marì, e se mi si strappa?
– E zitto! Per una volta che ti metti qualcosa di elegante, mica è una tragedia. Dovresti pure essere contento che il sarto che l’ha fatto, l’hai visto il nome scritto nella giacca? È italiano, italiano come noi, Salvo! E poi, una sera è. Un premio ti devono dare: un premio, mica ‘na coltellata. Su, su. Comunque, fammi capire, chi te l’ha dato il vestito?
– Monsieur Bocols, bah ! – risponde, assumendo un beffardo tono nasale– “ça, monsieur Di Mizio, c’est pour vous convaincre et vous donner une bonne mine en face du Roi, voi convincère e voi dare un-bel-aspèto in facia del Re, vous comprenez? Soyez tranquille, ça sera mieux pour vous et pour nous tous” …’stu scem’ ! Mah, lasciamo perdere, va’. Me ne devo andare, la cena è alle otto. Se era per me, nemmeno ci andavo: mi ci hanno costretto.
– Meh, mo’ basta, Salvo, non ti lamentare. Dai, va’ che ti stanno aspettando.
– Prendimi il cappotto, per piacere. Grazie. Aiutami a infilarlo…piano…ho detto piano Marì! Ecco qua! S’è strappato, s’è strappato, lo sapevo. S’è strappato, vero?
– Non s’è strappato niente! Mo’ fa’ il bravo, Salvo, mi raccomando, non mi far fare brutte figure. Va’, ciao!

Fuori lo assale il freddo di novembre e per colpa di quell’abito troppo stretto non può neanche incrociare le braccia per creare un inconsistente tepore. È grigio intorno. Come sempre, ormai dovrebbe esserci abituato. E soprattutto è già buio. In questo Paese, non ha quasi mai visto il sole. Ma la stazione non è lontana e  si profila dietro l’ultima curva, prima di aver avuto il tempo di pentirsi di averla imboccata. Dentro, esclusi macchinisti e ferrovieri in divisa, non c’è quasi nessuno. Ma per uno strano scherzo della mente quel luogo semideserto improvvisamente si popola: come fantasmi non evocati, immagini senza più vita, ma che non si rassegnano a essere dimenticate, i ricordi affluiscono dalle fessure della coscienza. Rivede nei piazzali ora vuoti un brulichio di gente da ogni dove, spintoni, bagagli, bambini che piangono, mamme che li chiamano in dialetto veneto, abruzzese o pugliese. Uomini da una parte, donne dall’altra. E’ in partenza il nuovo carro bestiame, lavoratori modello pronti a rompersi la schiena. Attention le train IC deux-cent-quattre-ving-six, à destination de Bruxelles Midi/ Brussel Zuid. Salvo trasale, scuotendo dalla mente quell’immagine indesiderata.
Vagoni valloni, ferrovia di acciaio, carrozze cupe. Gli tocca entrarci, seguire i binari, salire e lasciarsi trasportare in silenzio. Come quand’era arrivato, ma in direzione contraria.  Ricorda di allora la speranza fiduciosa e il fascino che aveva esercitato su di lui la vista dell’orizzonte segnato dagli ordigni di ferro. Oggi su quel treno si lasciava alle spalle quello stesso orizzonte, del quale aveva appreso nel frattempo la vera natura: tutto era ruggine e case nerastre, rese così dal fumo delle miniere. Il Paese Nero, ecco come lo chiamano. Il Paese Nero.

***

L’insegna che campeggia sull’ingresso a vetri del ristorante recita “Comme chez soi”. Ma no, non si sente affatto come a casa sua, anzi, avrebbe preferito di gran lunga esservi rimasto, quella sera. Ha troppa fretta per esitare ancora: il treno ha tardato e lui ha dovuto percorrere il tragitto dalla stazione di Bruxelles fino a Place Rouppe correndo, quasi senza prendere fiato, e adesso, paonazzo, madido di sudore e affannato, deve varcare la soglia del ristorante più elegante della città, troppo in ritardo per fermarsi a ricomporsi, prendere fiato o  riflettere su quello che sta per accadere.
Apre la pesante porta a vetri. Ad accoglierlo, un garçon pallido, dai capelli scuri impomatati all’indietro, conciato come un pinguino ingessato.
Se il signore desidera lasciare  il cappotto…
Gli si fionda alle spalle, con delicatezza lo aiuta a sfilarselo. Salvo rimane impietrito: non sa neanche se inclinarsi leggermente all’indietro per favorire i movimenti del ragazzo. Ma le maniche del cappotto sono come incollate a quelle della giacca. Durante la delicata operazione, la grossa pancia di Salvo si impone eroicamente sulla scena (per un attimo ha il timore che un bottone del panciotto possa saltare come un proiettile e colpire qualcuno). Imbarazzato, il giovane cameriere tenta in tutti i modi di liberare il pover’uomo, che è rimasto lì, sulla soglia, imprigionato come un insaccato.
– Non preoccupatevi, Signore!
Il ragazzo si fa coraggio e con uno strattone riesce nell’impresa. Con un sorrisino compiaciuto sulle labbra e i capelli scomposti, ripone con cura il cappotto su un appendiabiti.
– Ce l’abbiamo fatta!
Salvo è rimasto lì, immobile. Accenna un sorriso, si guarda intorno. Non era mai stato in un posto così lussuoso. Ha già tutti gli occhi puntati addosso, abbassa lo sguardo. Lo avviluppa un’aria calda, un profumo di stoffe e di fiori, una fragranza di cibi. Nei doppieri di argento sulle tavole, lunghe candele slanciano le fiamme verso i lampadari floreali che pendono dal soffitto, in un rimando di luci sfavillanti. I cristalli tintinnano tra i fruscii delle sete fiamminghe, piccoli vasi in porcellana esibiscono variopinte begonie e orchidee fragranti. Camerieri composti, quasi solenni, sgusciano tra i tavoli insinuando vassoi carichi di vivande al di sopra delle spalle dei commensali. Le calze di seta delle donne, il fumo azzurrino dei sigari, le scarpe lustre. Mani inguantate, Madame, Monsieur, un valzer suona, ma chissà da dove. Salvo si affretta dietro il cameriere che lo guida tra i tavoli apparecchiati, distratto da mille dettagli, sfiora appena le cose attorno a sé, intimorito, rigido. Con lo sguardo cerca i compagni, la tavola alla quale è destinato, ma non la trova, vede solo volti sconosciuti. Si accorge però che occhiate furtive e curiose si alzano dai tavoli verso la sua figura incerta e strozzata in quel ridicolo abito stretto, accompagnate da commenti sussurrati. Lo sanno, pensa. Di sicuro, tutti lì dentro sanno. Molti avranno portato a cena fuori le loro belle mogli per saziarne la curiosità. Eccole, le dame, che muoiono dalla voglia di sapere cosa mai si servirà in tavola al signor ministro. Ed ecco i loro uomini che sperano di riuscire a stringere la mano a Achille Charbon in persona, notre héros! Chissà che adesso non abbia addosso anche lo sguardo indagatore di qualche giornalista. All’idea Salvo si sente avvampare, il suo sguardo si abbassa sui bottoni della giacca, sul tessuto che si tende nello sforzo di contenere il suo corpo imponente, accartocciandosi in pieghe penose impossibili da appianare. Maledice ancora l’abito che lo soffoca, il treno che ha tardato – se fosse arrivato in tempo avrebbe per lo meno potuto confondersi tra gli altri, non attirare tutta quell’attenzione su di sé – e poi il ristorante e tutti i presenti. Superano il grande salone – Seguitemi – il cameriere lo conduce in un lungo e stretto corridoio. I muri sono letteralmente ricoperti da quadri settecenteschi circondati da ingombranti cornici dorate. La luce adesso è fioca. Le immagini si mescolano, come le carte di un gioco senza regole. I confini tra i ricordi e la realtà per un momento interminabile si assottigliano: sta percorrendo un corridoio di un ristorante o un cunicolo sotterraneo? Dove sta andando? Non lo sa più. Ha perso l’orientamento, tocca una parete fangosa per riprendere equilibrio. Ma al suo posto trova una parete solida e rassicurante. Scuote la testa, è arrivato. Le mani stringono l’orlo della giacca e lo stiracchiano nervosamente. Sempre più agitato, sudato, si infila un dito nel colletto che lo sta soffocando.
Il cameriere fa cenno al suo gemello di guardia di fronte a una porta. Quello la apre accompagnandola con il movimento del braccio a spianare la strada al nuovo arrivato. Neanche il tempo di entrare e due saette lo colpiscono in pieno: partono dagli occhi di Bocols – Di Mizio! Finalmente! Ti stavamo tutti aspettando. Per un attimo ho temuto che disertassi – gli dice sorridendo inquieto – Ti abbiamo riservato il posto d’onore vicino al primo ministro!
Che figli di puttana. Casualmente il suo posto è quello vicino a quell’uomo grasso che si volta, accennando una specie di inchino. Ha il volto austero, baffi neri spelacchiati e occhialetti tondi che ne mettono in risalto il già visibile strabismo. Non sapere cosa realmente stia fissando, se la sua giacca, i suoi occhi o semplicemente il pantalone sgualcito, lo fa sentire imperfetto da tutte le parti.
Salvo prende posto. Sente il tessuto tirarsi e poi cedere con un rumore secco, uno strappo. Oh Dio…la giacca! Con tutto l’autocontrollo di cui è capace, solleva la testa con circospezione per verificare se qualcuno si è accorto dell’indegno cedimento. Tutti lo osservano ma senza derisione. La musica deve averlo coperto.
Si guarda intorno, cinque dei suoi compagni sono lì. La loro vista lo diverte: è la prima volta dopo anni di lavoro insieme che li vede agghindati così. Si accorge di nei, rughe e espressioni che sempre gli erano sfuggite, sommerse da un nero indelebile di fuliggine. Cerca nei loro sguardi un’intesa, ma nessuno sembra rispondere al suo appello. Bocols, invece, è l’unico interamente entusiasta di essere lì dov’è. Si direbbe sia il giorno più felice della sua vita, sprofondato in quella sedia intarsiata da reggia napoleonica.
Salvo gira poi lo sguardo verso il tipo baffuto, e vede che a fargli da spalla ci sono altri due uomini.
Bene, lei dev’essere il signor Di Mizio, vero? Mi presento, sebbene certamente lei sappia chi sono: Achille Van Acker, primo ministro dello stato federale belga. Molto piacere. Loro sono il ministro dell’interno Troclet e il signor Ley, ministro delle finanze. Siamo qui per incontrare voialtri.
Chiedo scusa per il ritardo, signori – risponde Salvo, mettendosi il tovagliolo sulle gambe (lo aveva visto fare in un film, al cinematografo) e cercando di capire come diavolo sbrogliare il gomitolo di posate disposto davanti ai suoi occhi.
Intanto, il garçon che lo aveva accolto all’ingresso, ancora coi capelli spettinati, si china verso di lui:
Il signore desidera del vino ?
– Certo che lo gradisce – interviene Van Acker, bonario – Non esiste italiano che non beva vino, giusto signor Di Mizio?
– Penso che ce ne sia qualcuno, che non lo beve, Signore.
– Ma voi lo bevete, vero?
– Certo, Signore.
– Allora, signor Di Mizio, mi hanno detto che voi siete stato molto coraggioso.
– Né più, né meno di tutti i miei compagni, Signor ministro.
– Certo, infatti siamo qui oggi proprio per tutti voi. Sua maestà in persona, vi renderà onore per il vostro coraggio.
– Eravamo molti di più là sotto, Signore.
– Sì, lo so. Sono già stato informato da Monsieur Bocols della vostra… riluttanza, diciamo, a prendere parte al nostro convegno.
– Ma ora è tutto sistemato, vero Salvo? – interviene bruscamente Bocols.
– Certo, tutto sistemato.
– Bene, bevete. Su, bevete quest’ottimo vino che vi ricorderà la vostra patria lontana – riprende il primo ministro con un sorriso mellifluo – Dicevo, signor Di Mizio, che noi siamo entusiasti di incontrare voialtri minatori in quest’occasione, per testimoniare la grande vicinanza delle Istituzioni in questa tragica circostanza…
Ma Salvo non lo sta ascoltando. È stato distratto dal tossicchiare nervoso del povero Novelli, seduto di fronte a lui, e ha preso a studiare la ruga malinconica che gli trancia l’espressione. Tra gli operai della Centrale de sauvetage, Novelli era quello che più non riusciva a darsi pace per quanto successo. Come si sentisse in colpa per essere sopravvissuto, continuava a commiserare se stesso; avrebbe voluto essere morto lui al loro posto. Da quel giorno aveva cominciato a sragionare, gli venivano le allucinazioni ed era diventato superstizioso. Se si stava a sentire a lui, pareva che ad appiccare il fuoco era stato lu diavol’, o ‘nu fantasma, o lu Spirito Sant’ addirittura.
Salvo si infila di nuovo le dita nel colletto della camicia, bramando aria. Tossisce, continua a mangiare. Portandosi il tovagliolo rosso alla bocca per pulirsi, non può far a meno di pensare alla sua divisa da lavoro. Le voci dei commensali diventano brusio di sottofondo che arriva ovattato alle sue orecchie. Ancora una volta i ricordi spalancano le porte, senza bussare: il fazzoletto rosso per proteggersi dal fumo del carbone, l’aria nera e pesante, il caldo torrido, tutti rannicchiati nei cunicoli. Quanto sono scuri in volto, questi italiani, dopo il lavoro! Si scendeva giù nelle gabbie e ci si dimenticava del sole. Nelle viscere della terra ti manca il fiato, proprio come ora che il colletto della camicia stringe come se fosse un cappio al collo.
–    Voi cosa ne pensate, signor Di Mizio? – chiede il Ministro Troclet.
Salvo trasale, si strofina gli occhi, non sa perché le parole adesso fluiscano fuori da lui come se a pronunciarle fosse un altro:
–    Penso che le maschere antigas ce le dovevate dare prima. A tutti ce le dovevate dare prima!
La tavolata piomba in un imbarazzante silenzio. Si sente distintamente il rumore delle bocche che masticano. Gli altri compagni tengono sempre gli occhi bassi, a malapena proferiscono parola. Monsieur Bocols guarda Salvo con scuro cipiglio. Il garçon dal ciuffo spettinato continua a versare vino. Che belli e raffinati questi candelabri d’argento sulla tavola! La luce soffusa delle candele ricorda proprio le lanterne che, timidamente, illuminano i cunicoli scuri della miniera. Il fumo. Il fumo di quella mattina però, quello che veniva fuori dalle ciminiere dopo l’incidente, era più scuro, nero. Si vedeva anche da lontano. Salvo interrompe con uno sforzo di volontà quel susseguirsi di ricordi e, attribuendone la causa al troppo vino, si ripropone di berne solo un ultimo bicchiere.
–    Dunque, signor Bocols, – interviene nel frattempo il Ministro Troclet, spostando abilmente l’argomento della conversazione – è per noi un dovere ringraziarvi per l’eroismo che voi e i vostri minatori avete dimostrato discendendo nella miniera. Suppongo che abbiate dovuto ben armarvi di coraggio.
–    E’ stato spaventoso – Bocols s’assottiglia sul tavolo, a mo’ di zerbino – i miei colleghi, che dico, i miei amici, hanno lavorato giorno e notte per cercare dei sopravvissuti.
–    Come avete fatto a ritrovare le vittime?
– Da sotto mandavano messaggi su pezzi di legno e … – s’intromette uno dei commensali sentendosi chiamato in causa, dato che il Ministro siede di fronte a lui. È Angelò, un uomo dall’espressione arcigna, il volto acceso d’intraprendenza. Dalla sua espressione trapela la fierezza di chi è cosciente d’aver fatto qualcosa d’importante e vuole esserne ricompensato. Si accorge tuttavia dello sguardo collerico di Bocols, indispettito d’essere stato interrotto nel suo momento di gloria. Ma riprende subito dopo – Dopo l’incendio sono venuti i pompieri e hanno gettato giù acqua. Per spegnere le fiamme e per dissetare quelli che erano sotto. Noi siamo entrati dopo, ma non vedevamo niente e procedevamo con prudenza, tre a tre…
–   Eravamo in diciotto, mica solo noi sei. Sennò mica ce la facevamo – Lo interrompe Salvo, aggrottando infastidito le sopracciglia.
Basta con questa storia! – questa volta Bocols non si limita a gettargli occhiatacce eloquenti, ma lo zittisce con un sibilo velenoso, puntandogli contro una forchetta.
Suvvia, calmatevi signor Bocols. Non è successo nulla. Prego, signor Angelò, proseguite con il vostro racconto – interviene Van Acker, a placare le acque.
Dovevamo sempre far attenzione a non cadere nel pozzo perché non si vedeva niente. Dal carrello ogni tanto montavano su dei pezzi di legno. Ne trovammo uno con su scritto “Fuggiamo verso il Ca Pomm’”. Era terribile, signor ministro, terribile. Le speranze di ritrovare qualcuno vivo si sbriciolavano mano a mano che ci avvicinavamo. E così per tanti altri, il più grande dolore era di arrivare tardi. Con le lampade che avevamo e che generalmente servivano per illuminare bene le gallerie, non riuscivamo a vedere niente per il troppo fumo. Una volta ci è mancato poco che cadevamo tutti giù nel pozzo, non si vedeva neanche più, il pozzo, né dove mettevamo i piedi. Ma tra i soccorritori per fortuna non ci sono stati morti. Perché il direttore – indicando Bocols – ci diceva sempre: “quelli che sono morti sono morti. E voi siete vivi e dovete fare attenzione. Se sono vivi fate tutto il possibile per salvarli, ma se sono morti agite con prudenza”. Ma al Ca Pomm’ o da altre parti di vivi ne abbiamo trovati pochi. Il nostro gruppo ne ha trovati solo tre. Un’altra squadra altri tre, e questo è tutto. Uno era quasi impazzito e l’abbiamo dovuto legare. Abbiamo bagnato i fazzoletti con l’urina e glieli abbiamo messi sulla faccia per filtrare l’aria e aiutarlo a respirare. Erano tutti asfissiati. A 1035 non c’erano asfissiati perché lì il fumo non c’era arrivato. Sono morti, chissà quanto tempo dopo, perché mancava l’ossigeno. Quando abbiamo visto la scritta: “scappiamo di là”, questa è stata la cosa più terribile.
–   Vi capisco, signore. Ma il vostro capo aveva ragione: voi siete vivi, c’è qualche minatore ancora in vita e questa, questa è la cosa più straordinaria – attacca Van Acker con il consueto tono d’encomio – Per il governo belga le operazioni di salvataggio sono state fondamentali. Voi avete dimostrato all’intero popolo belga, signori, che anche nelle tragedie più orribili la speranza sopravvive. L’eroismo paga, sapete? Ed è per vostro merito che il popolo belga non si è piegato di fronte a una tragica calamità decretata dal destino. Il Belgio crede ancora nelle proprie riserve di carbone, nella vittoria del lavoro sulla miseria. Voi siete divenuti il simbolo della volontà del popolo contro le avversità. Io propongo un brindisi agli eroi di Marcinelle! Un brindisi a voi, signori!
Dopo il suo intervento, Salvo aveva assistito alla scena rimuginando sulle facce di tutti quelli seduti al tavolo. I suoi compagni avevano ascoltato con partecipazione silenziosa il racconto di Angelò. Lui è il solo per cui Salvo non prova nessuna simpatia. Lui lo sa, il francese. Quando lavoravano insieme, correggeva tutti, dicendo “dans la Grévisse, la règle dit que”: Angelò era un bel prodotto di quello che si chiama “integrazione”. Quando undici dei diciotto minatori della squadra non avevano ricevuto il regale invito alla premiazione, era stato l’unico a non voler protestare. Era stato proprio lui a fargli notare che “Se non vieni, Salvo, ti arrestano! È Rifiuto Onorifico a Sua Maestà. Ci devi venire per forza a prendere il premio, te lo ficchi in testa o no?”.
– E voi, signor Di Mizio, non avete un aneddoto più simpatico da raccontarci?
Vuole la simpatia lui. Muoiono duecentosessantadue persone e Van Acker vuole la simpatia.
– Ma certo, signor Ministro – Salvo si alza in piedi, facendo un gran baccano con la sedia. – una delle prime mattine, mentre mi facevo la barba, mi sono fatto un bel taglietto. Qua, vedete? – Si avvicina al ministro e si puntella con il dito sulla guancia. Il tono della voce è un po’ troppo alto, accompagnato da gesti plateali. – Cose che succedono, direte voi. La stessa cosa ho pensato pure io, ho lasciato perdere e sono sceso in miniera per il turno di salvataggio. Durante la notte inizio a sentire un gran pizzicore. E io là a grattarmi, grattarmi, ma questo non se ne andava, anzi, aumentava! Mi sono guardato alla specchio ed era tutto gonfio. Mi hanno portato in ospedale, dicevano che era urgente, che per poco morivo. Mi ero preso un’infezione da tetano, mi hanno detto. E la volete sapere la cosa simpatica? L’infezione m’è venuta perché uno di quei cadaveri, gonfio di acqua e gas, mentre cercavo di metterlo nel sacco, mi è scoppiato addosso!
Rimangono tutti in silenzio, sgomenti. Il Ministro Ley ha gli occhi sbarrati, mastica lentamente come se non riuscisse a deglutire dal disgusto.
Suvvia, signor Di Mizio, stiamo mangiando! Per l’amor del cielo!  – lo riprende il Primo Ministro, poi, con un sussurro, a Troclet – Forse ha bevuto troppo.
Salvo solleva il bicchiere verso Van Acker – E se morivo, poi non potevo stare qui con voi a brindare! – e lo vuota d’un fiato, versandosi un po’ di vino sulla camicia bianca.
Il Primo Ministro, in preda a una grande agitazione, si alza in piedi. La sua voce è ferma ma severa:
– Vi prego di calmarvi. Il vostro comportamento non corrisponde affatto all’onore di cui vi siete ricoperto con le vostre azioni a Marcinelle. Voglio perdonarvi perché questa cena informale può forse avervi messo troppo a vostro agio e avervi fatto dimenticare come ci si comporta davanti ad un’autorità. Capisco anche che l’eccezionale portata degli eventi di cui siete stati testimoni sia difficile da accettare e che forse uomini d’azione come voi, signor Di Mizio, non si rassegnano a incolpare il destino, il cielo o la sventura, ma devono avere un responsabile da guardare negli occhi. Ora, non è per me una colpa aver fatto di tutto perché l’economia di questo paese prosperasse grazie al carbone. Fino a dieci anni fa l’Europa era in guerra e noi siamo stati il motore di questo continente. Voi siete italiano e non belga, perciò forse non potete sentire l’orgoglio che sento io, ma avete vissuto in questo paese, probabilmente qui vi siete sposato e avete messo su famiglia. Questo è anche un po’ il vostro paese ora ed è per il bene di tutti, anche di voi immigrati alla ricerca di lavoro e benessere, che l’economia belga deve andare avanti. Siamo tutti dolenti per la tragedia di Marcinelle, ma non possiamo lasciare che un singolo evento infausto offuschi una storia gloriosa. Per questo siete qui oggi. Per questo voi ora frenerete i vostri impeti. Signor Bocols, vi prego di accompagnare il signor Di Mizio in un’altra stanza, a ricomporsi. Tra poco dovremo incontrare Re Baldovino al Palais de Beaux Arts. Ci sarà la stampa e avremo gli occhi del Paese e del mondo intero su di noi.
Salvo tace e si lascia docilmente condurre fuori da Bocols. Il Primo Ministro siede di nuovo a tavola, come se nulla fosse accaduto. Solo delle scintille nel fondo dei suoi occhi tradiscono la rabbia repressa. Lentamente, estrae l’orologio dal panciotto. È quasi ora, pensa.

***

Nel tragitto per il Palais des Beaux Arts Salvo e Angelò avevano continuato a baccaiare per tutto il tempo. Bocols si era tenuto in testa al manipolo senza dire una parola, la testa bassa. Di tanto in tanto aveva sibilato un’imprecazione o aveva rifilato un calcione ai sassolini che gli si erano trovati davanti ai piedi, furioso. Due lacché avevano intercettato il manipolo di minatori prima che raggiungessero l’imponente facciata dell’enorme edificio in stile liberty che è il Palais des Beaux Arts. Li avevano pregati di seguirli attraverso una porta di servizio e fatti infilare in un corridoio stretto che terminava in un atrio moderatamente spazioso. Avevano indicato la porta sulla destra e se n’erano andati di fretta, incitandosi a vicenda per sbrigarsi: c’era da terminare l’allestimento della sala prima dell’arrivo del grande ospite.
I minatori si accostano all’uscio e spingono i battenti. All’interno, quello che potrebbe definirsi una sorta di spogliatoio, un camerino collettivo: una stanza tutto sommato abbastanza ampia e arredata per l’occasione, sembrerebbe. Delle panche di legno si distendono  sul perimetro dei muri e sopra di loro corre un lungo appendiabiti, i cui ganci designano le postazioni assegnate agli avventori. Avvicinandosi i minatori riconoscono delle pile di tessuto blu, piegate e accatastate geometricamente su loro stesse, accompagnate al loro fianco da un elmetto giallo, un piccone, una torcia: il costume di scena. Sotto le panche, sei paia di stivaloni con la punta in ferro, di quelli da lavoro, un  paio per ogni completo. Due grandi specchi coprono la parete alle spalle dei minatori, ai lati della porta.
– Ma va là, la mia non è mai stata mica così pulita – si meraviglia Angelò distendendo le pieghe del tessuto blu e mostrando agli altri la tuta e la scritta stampata a caratteri cubitali: “SAUVETAGE MARCINELLE”.
Salvo non riesce a trattenere il sorriso. La rabbia della cena, che a momenti lo avrebbe fatto esplodere, ha lasciato il posto ad una rassegnazione amara. Fissa tutti con ironia, soprattutto Angelò, ancora immerso nel suo solenne autocompiacimento.
Le dita scorrono lentamente sull’orlo della camicia. Tenendo gli occhi bassi, Salvo si libera, bottone dopo bottone, della sua gabbia di tessuto di infima categoria. Può respirare a pieni polmoni adesso. Quasi si sente più a suo agio, reindossando la tuta da lavoro. Continua a ridacchiare, scuotendo la testa. Alle sue spalle, i passi di Bocols:
– Spero che ti sia dato una calmata, Di Mizio, abbiamo collezionato fin troppe figuracce per oggi.
– Sono calmo, Monsieur Bocols. Chiedo ancora scusa per la mia scenata. Sono calmo adesso – risponde Salvo, voltandosi e guardando negli occhi Bocols, con una risata beffarda.
– Voglio ben sperare.
Salvo si infila l’elmetto e raggiunge Novelli, che ancora singhiozza inquieto tanto da non riuscire a vestirsi. Gli si avvicina e con fare quasi paterno lo aiuta a infilarsi la tuta.
– Oh, Novelli! – Salvo gli da uno strattone, gli passa un braccio sulla     schiena e lo solleva dal costato. Quello si scuote dalla sorta di            dormiveglia e accenna una smorfia – che fai? Vieni con me, andiamo     a vedere come stiamo. Siamo belli, che ne pensi?
Sullo specchio appaiono due minatori abbracciati: uno si tiene eretto, prende un’espressione di contentezza ostentata, tanto esagerata da sembrare falsa; l’altro ha il volto spento, lo sguardo smunto e disperso, incrinato dalla postura stanca sulle spalle aggrottate.
– Beh, tieniti le lacrime per dopo, Novelli. Ora sorridi, ché c’è il Re.
Uscendo dallo spogliatoio sopraggiunge uno dei lacché che conduce il gruppetto dietro le quinte e tendendo una mano indica che bisogna aspettare. Al segnale di un suo collega invita i minatori a sfilare sino a raggiungere la prima fila di sedie. Quando oltrepassano il sipario, mentre scendono la scaletta che porta alla platea avvolti dal fragore del battimani, li accoglie un luccichio abbagliante di flash.  Angelò si volta sorridendo verso Salvo che è il penultimo della fila, solo Novelli è dietro di lui. Quello risponde al sorriso ostentando il movimento del mento con aria strafottente, come a dire “cosa c’è da ridere”. La sala è gigantesca, file e file di poltroncine rosse sono disposte in salita verso l’entrata, tagliate a meta da un tappeto rosso di quelli destinati alle grandi occasioni. Dalle gallerie una cascata di sguardi incuriositi si riversa sulla prima fila. Dame e messeri, in rigoroso abito da sera, come sentinelle di vedetta, slanciano i loro binocoli su quegli uomini coraggiosi. Alcuni giornalisti tentano di farsi largo tra gli addetti alla sicurezza per strappare loro qualche parola, carpire  testimonianze, immortalare il loro stato d’animo. Le voci si sovrappongono in un fruscio lusinghiero; esclamazioni di stupore fanno da sfondo a motti di giubilo e auguri di lunga vita alla compagnia degli eroi del Sauvetage che prende posto sulle poltroncine riservate in prima fila. Salvo si alza per dare un’occhiata al palco, ma un rullo di tamburi lo rispedisce dritto dritto sulla sedia. Si volta, come un monello che ha appena preso una sgridata, e nello stesso istante una voce proveniente da chissà dove declama solennemente: “Sua Maestà il Re Baldovino”. Preceduto da un manipolo di militari in divisa da parata, il sovrano fa il suo ingresso nella sala anche lui in alta uniforme. Svariate decorazioni militari adornano il petto della giacca bianca. In verità, poco più che un ragazzino, pensa Salvo. Ha la faccia sbarbata e probabilmente non avrebbe nemmeno bisogno di sbarbarla, la faccia. Alto sì, ma mingherlino, e dall’andatura cerimoniosamente accentuata, petto in fuori e passi rigidi. Capelli biondi, occhi azzurri e la puzza sotto il naso che si vede lontano un miglio. Ma un’aria inquieta ne tradisce l’inesperienza, Vostra Altezza non ha ancora imparato come ci si mostra maestosi davanti ai propri sudditi, questione di tempo forse. Lo seguono alcuni figuri e Salvo non può che riconoscere i primi tre: Van Acker, Troclet, Ley; quelli dietro devono essere gli altri ministri. Passando dinnanzi a Salvo, il Primo Ministro scaglia uno sguardo infuocato, che sa un po’ di rimprovero e un po’ di raccomandazione a non combinarne un’altra. Sul palco, il Re si sistema di fianco a un tavolo allestito per l’occasione,   al suo fianco, in fila, si dispongono i membri del governo. I militari si allineano alle loro spalle, sull’attenti. Un uomo in abito da gala, tutto brillante di lustrini, si presenta sul palco con in mano un cofanetto d’argento; lo apre, rivolgendolo verso il pubblico: le medaglie al valore.
La voce solenne squassa gli altoparlanti: “Bocols Michel”. Il capocentrale si rizza sulla sedia al richiamo e si affretta a raggiungere il palco. Ai piedi della scaletta rallenta, si contiene, come si fosse ricordato all’improvviso di trovarsi ad una cerimonia ufficiale. Monta sul palco e Salvo vede la sua chierica abbassarsi a ogni stretta di mano. Il busto si flette sempre più man mano che si approssima a Van Acker. Là, sembra definitivamente inchinarsi, ma non fa in tempo: deve ancora arrivare dal Re. Sua Maestà preleva una delle medaglie dal cofanetto e il direttore della Centrale ci infila dentro la testa, riverente, poi riceve dal sovrano una cassetta deposta sul tavolo. Scambiano qualche parola, ma dalla platea nessuno può sentirla. Bocols si congeda con una calorosa stretta di mano e quasi saltellando si riaccomoda, le mani distese sulla cassetta. Ha gli occhi spalancati, lucidi d’emozione e la bocca aperta, inebetita.
“Mai Angelo”. Angelo si solleva compassato, dritto come uno spillo. Passa in rassegna i ministri con fierezza solenne. Il Re gli porge la medaglia e dice qualcosa anche a lui, che si volta e mette in mostra il tutone blu lucidato, con la scritta Sauvetage Marcinelle. Si atteggia a emblema di lavoratore modello, il monarca contempla anche il retro della tuta e poi lo congeda, consegnandogli una cassettina. Compassato, il minatore torna al suo posto, lanciando un’occhiata derisoria a Salvo e indicando sommessamente col dito la cassettina che tiene in mano.
La voce convoca sul palco i minatori per la consegna dei premi, uno per volta. Con ognuno di loro il Re ha un conciliabolo di qualche minuto e quello di volta in volta gli mostra la torcia, i guanti e così via. Poi gli dà una di quelle cassette e lo manda via, in una tempesta di lampi fotografici. Salvo continua a osservare, sempre più contrariato.
Il turno di Novelli è commovente: nello stringere le mani ai ministri si scioglie nell’ennesimo pianto, e il Re, quando si trova di fronte quel viso disperato striato dalle lacrime, coglie l’occasione e, da primo attore, improvvisa: lo abbraccia calorosamente, come fosse suo figlio, strizzando gli occhi all’occasione per dare a vedere anche lui di non riuscire a trattenere la commozione. La platea rimbomba nel fragore degli applausi quando il re solleva verso la folla il braccio dell’eroe Novelli. A Salvo però qualcosa non quadra, ancora quel pathos pare troppo eccessivo per essere naturale, come fosse recitato; d’altro canto, il premio c’è davvero, forse aveva ragione Angelo. Il re consegna con calore anche a Novelli la medaglia e la scatola con il premio – ma che c’è là dentro, però?! – si domanda Salvo:  ormai manca solo lui.
“Di Mizio Salvo”. Si solleva con fare frettoloso e goffo. Sale anche lui sul palco e stringe appena appena le mani dei ministri, quasi non volesse toccarle, ma a Van Acker la offre piena, e quando quello lo guarda sollevato per la pace ritrovata,  distoglie lo sguardo, mostrandogli una guancia ammusonita, non vuole mostrargli comprensione. Finalmente poi raggiunge il Re Baldovino, che gli si rivolge con un inaspettato italiano:
Avete avuto paura?
– Sì, ho moglie e due figli.
– Di che parte siete voi?
– Abruzzo.
– Di Pescara?
– No, di Chieti.
– Sono stato anche a Chieti.
– Ah! – fa Salvo, un po’ sorpreso. Quella risposta non se l’aspettava.
– Stringetemi la mano con vigore e voltiamoci sorridendo verso la platea, come fossimo vecchi amici.
Spiazzato, Salvo porge la mano al re e stringe forte, a malincuore esegue quanto desiderato. Cerca di tirare fuori un’aria sorridente, ma nei suoi occhi si legge lo stupore e un filo di indignazione. Ma Baldovino distende i muscoli facciali. Attore consumato, prende la fisionomia del magnanimo benefattore e attende la scarica di click, con perfetti tempi teatrali. Terminata la bufera, accosta la guancia a quella di Salvo: – Se volete, sapete dove trovarmi. Buona fortuna! Ecco, anche a voi il vostro premio. Non fatevi illusioni, si tratta di una formalità, spero che abbiate capito.
Salvo torna al suo posto e senza dire una parola osserva l’ultimo inchino della fila dei Ministri, il Re al centro accoglie gli ultimi applausi. Mentre il pubblico comincia a intasarsi verso le uscite, cala il sipario e i teatranti spariscono dietro le quinte in un rullo di tamburi. Solo i minatori, spettatori privilegiati, restano sulle loro poltroncine in prima fila.
– E allora? Guardiamo cosa c’è nella scatola. Vediamolo, questo premio!– grida Salvo. Solleva il coperchio e dal cofanetto balena un bigliettino, ripiegato, si affretta a distenderlo: “Salvo Di Mizio”, c’è scritto. E nient’altro.

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