La nottola (di) Minerva – Anna Carrozzo

La nottola (di) Minerva
Anna Carrozzo

«Tu ti beffi di te e come il fuoco d’inferno il tuo riso scoppietta,
le scintille del tuo riso dorano il fondo della tua vita.
È un quadro appeso in un museo oscuro
E ogni tanto tu vai a guardarla da vicino…».
Zona, G. Apollinaire

Di tutti i messaggi che avevo ricevuto questo mi sembrava il più irriverente. Me lo avevano consegnato sul far del crepuscolo, quando la mia coscienza si era assopita e la mia anima era come anestetizzata.
Io mi beffavo di me stessa? Avevo sempre creduto che fossero gli altri a beffarsi di me, mentre mi sventravano con i loro sguardi e mi macellavano con le loro parole.
Venivo accusata perché non agivo e mi guardavo vivere, ma cosa avrebbe fatto chiunque altro si fosse trovato nella mia situazione? Io anelavo a una vita che fosse come “un quadro appeso in un museo oscuro”, ma nessuno riusciva a capirlo. Continuavano a puntarmi una luce contro per illuminare il mio cammino; pensavano di farlo per il mio bene, perché uscissi dal tunnel della disperazione, ma io desideravo solo il provvidenziale conforto dell’ombra.
Ogni messaggio che ricevevo mi portava sempre più a desiderare di sprofondare nell’abisso, ma continuavo a domandare all’anonimo messaggero di ascoltare le mie preghiere e di svelarmi ciò che non ero ancora riuscita a capire.
La mia mente, triturata alla notizia della morte del mio bambino, cominciava a rigenerarsi, ma facevo ancora tanta fatica a capire il perché del dolore, e il motivo per il quale ero venuta al mondo. Quella mattina suo padre aveva deciso di portarlo a vedere il mare, convinto come era che avere dodici anni e non aver mai visto una distesa infinita di acqua non gli avrebbe permesso di aprirsi la mente.
Lo avevo salutato come si saluta chi sta per affrontare un’esperienza che, nel bene o nel male, lo renderà diverso. Ero convinta anch’io che l’infinità del mare avrebbe allargato i suoi orizzonti e lo avrebbe portato a riflettere su se stesso. Gli avevo recitato dei versi di una delle mie poesie preferite: “Uomo libero, tu amerai sempre il mare/ Il mare è il tuo specchio: contempli la tua anima/ nello svolgersi infinito della sua onda”.
Avevo baciato suo padre e avevo stretto forte entrambi prima di lasciarli andare: il mio ometto doveva andare ad innamorarsi del mare.
Non riuscivo a capire perché un evento tanto naturale e semplice mi facesse stare in tensione. Me li immaginavo mentre guardavano con gli occhi luccicanti quella distesa cristallina e il mio cuore fremeva.
Ebbi un sussulto quando Hermes si avvicinò a me, che ero assorta nei miei pensieri nefasti davanti alla porta d’ingresso della mia casa, per darmi il triste annuncio: il mio bambino era annegato. Non mi seppe spiegare che fine avesse fatto il mio compagno e come avesse potuto permettere che il mare inghiottisse la nostra unica ragione di vita.
Ci volle molto tempo prima che io cominciassi a riprendermi e a convincermi che la mia vita doveva andare avanti, ma le parole che ricevevo dall’insolito messaggero sul far del crepuscolo mi gettavano nuovamente in una torbida confusione. Quelle parole erano arabeschi uncinati, corde con le quali venivo impiccata ogni giorno.
Mi sentivo schiacciata dal macigno del dolore che quei messaggi riportavano alla mia mente e, come un corpo disossato, trascorrevo inerte la mia esistenza.
Mio figlio non aveva più occhi per guardarmi, una voce per rassicurarmi, non era più nemmeno un’ombra: era invisibile per il mondo, per tutti. L’immagine più viva nella mia mente era quella di lui che mi stringeva forte prima di abbandonarsi al riposo quotidiano. Mi diceva sempre: “Grazie mamma per quest’altra giornata d’amore”. Era stato suo padre a suggerirgli quelle parole la prima volta, ma lui le aveva fatte sue e aveva iniziato ad usarle quotidianamente. Ora la solitudine crudele mi divideva da lui, povero innocente, che avrebbe dormito per sempre senza ringraziare la sua mamma per un’altra giornata d’amore.
Se avessi potuto parlare all’ignoto messaggero avrei provato a spiegargli che la mia vita non era “come un quadro appeso in un museo oscuro”, ma bruciava come e più dell’alcool su una ferita e io la bevevo come se fosse stato un brandy da sorseggiare per inebriarsi.
Anelavo le tenebre, ma la luce mi chiamava disperatamente e quei messaggi non mi permettevano di brancolare nel buio dell’indifferenza.
Rimanevo spesso inerte, sdraiata sul divano di casa mia, sul quale affondavo assieme alle mie angosce. La mia casa era sempre poco illuminata perché mi sembrava che l’oscurità potesse aiutarmi a sopportare il dolore e a interpretarlo.
Dovevo riflettere, cercare delle risposte e non disperare, ma l’angoscia mi serrava la gola e m’imponeva lunghi periodi d’indolenza. Volevo solo dormire, prendermi la libertà di essere incosciente e piangere per tutto: la perdita del ventre materno, la scomparsa delle braccia del mio compagno, l’assenza dei suoi occhi gelidi, le braccia che non ricordavo come mi abbracciavano.
E lui, l’oscuro messo, pensava che io mi guardassi vivere. Mi sembrava uno scherzo di cattivo gusto, uno scherzo giocatomi da qualcuno che non capiva che io ormai non credevo più a nulla, ed ero quasi contenta di crogiolarmi nell’apatia e nella tristezza.
Scoprivo in me un appetito per le cose tristi, quasi fossero un giusto castigo per essere sopravvissuta all’unica persona per la quale mi sembrava avesse avuto un senso la mia nascita. La mia vita aveva ricevuto colore nel momento in cui, dopo un lungo travaglio, lo avevo preso nelle mie braccia: lo avevo scavato con lo sguardo e avevo capito che la mia vita nera avrebbe preso il colore dei sogni, il rosa.
Immersa nei miei pensieri una sera, mentre ero affacciata alla finestra della mia camera da letto, vidi una colomba volare nella mia direzione e capii subito che era lei l’ignoto messaggero che attendevo sempre con impazienza.
Nelle Sacre Scritture la colomba, rilasciata da Noè, tornava all’arca con un ramoscello d’olivo in bocca per annunciare la fine del diluvio universale; diventando così il simbolo della pace che tornava fra Dio e gli uomini.
Nella mia vita la colomba, che accarezzava lievemente il cielo con le sue ali, portava solo scompiglio e nuovi motivi per tuffarsi nella tristezza.
Si chiamava Minerva, ma per i più era semplicemente “la colomba”: candida e pura, spiccava il volo dopo aver consegnato un altro messaggio; era nata armata di parole e consigli preziosi per chi aveva bisogno di fare chiarezza nella propria vita.
Da buona colomba si librava in alto nel cielo e s’illudeva che, se non ci fosse stata l’aria, il suo volo sarebbe stato più facile e avrebbe potuto spaziare più largamente, senza percepire i confini. Fragile illusione di chi dimenticava che l’aria, di cui sentiva la resistenza, in realtà la sosteneva. E lei aveva proprio bisogno di un appoggio al quale aggrapparsi con tutte le sue forze.
C’era chi preferiva chiamarla “la nottola” perché iniziava i suoi voli solo sul far del crepuscolo: amava i chiari di luna e la solitudine dei paesaggi notturni. Non consegnava mai i suoi messaggi rivelatori direttamente ai destinatari, che li scoprivano solo all’alba quando si svegliavano dal torpore notturno. Non temeva d’incontrare gli esseri umani con i quali voleva entrare in comunicazione, ma aveva orrore delle sue stesse parole.
Minerva – scoprii anche questo più tardi- era ben consapevole di dare alla luce soltanto ombre e aveva paura di autorizzarsi madre di quegli spicchi di verità.
Voleva andare oltre ogni muro, fornire la sua chiave d’interpretazione della realtà, ma ogni cosa che scriveva (anch’io, senza saperlo, glielo ricordavo ogni giorno) era già stata pensata da altri.
Nei miei occhi vitrei, la colomba cercava risposte originali, ma in essi si ripetevano solo copie di pensieri polverizzati.
Lei aveva accettato quell’incarico perché pensava che consegnare messaggi alle persone in difficoltà avrebbe potuto dare un senso nuovo alle sue giornate. Era stanca di volare senza meta e senza nessun obiettivo da portare a termine, e portare un po’ di scompiglio nelle vite altrui le sembrava potesse dare un po’ di moto anche alla sua piatta vita.
Aveva dovuto lottare con altre colombe per avere quell’incarico: tutte erano interessate a volare da una parte all’altra a consegnare la verità, tutte volevano diventare dei punti di riferimento nella vita di chi aveva perso la bussola.
Minerva però, superato l’entusiasmo iniziale, aveva capito che non era così bello non avere una se stessa alla quale fare riferimento; lei era solo un punto fisso per gli altri in un mondo privo di riferimenti.
Chi come me aveva subito un lutto, reale o metaforico che fosse, e sapeva dell’esistenza di questo messo, confidava di ricevere dei messaggi che rivelassero le verità ultime della vita, le sole veramente essenziali.
Pensavamo che la nottola, che avevamo visto in pochi ma della quale nessuno di noi poteva fare a meno, potesse fornirci degli strumenti utili per decodificare ciò che ci capitava nella vita di ogni giorno, e non sospettavamo nemmeno che anche lei fosse in preda ai dubbi esistenziali.
Noi credevamo che ci fosse un messaggio profondo dietro le sue parole oscure e c’interrogavamo sul senso che potessero avere; ci chiedevamo continuamente a cosa potessero rimandare quelle oscure lettere che volteggiavano nello spazio prima di colpire il prescelto di turno con la loro violenza baconiana.
In realtà quelle parole enigmatiche, che tutti bramavamo ricevere per dare un senso alle nostre esistenze, ci venivano mandate da un essere che aveva tutte le nostre insicurezze, ma errava continuamente alla ricerca delle grandi verità della vita.
Ascoltare me stessa, vedermi soffrire e leggere quei messaggi ambigui per me era un modo per tornare a vivere dopo quel terribile fatto.
Ci volle molto tempo perché io capissi perché Minerva era entrata nella mia vita e in quella di altri pochi eletti.
La nottola ci obbligava a fare i conti con i nostri fantasmi, con ciò che eravamo e con ciò che avevamo. Lei, librandosi in volo, resisteva all’aria per ricordare a se stessa e a noi che l’importante non era capire la nostra vita, né afferrare fino in fondo il senso dei messaggi oscuri che ricevevamo, ma metterci in gioco come bestie assetate.
Mi aveva aiutato a comprendere che la mia vita era realmente “come un quadro appeso in un museo oscuro” e, finalmente, iniziavo ad essere stanca di guardarla da vicino solo sporadicamente. Ero stanca di guardare la mia vita, ecco tutto.
Un giorno mi alzai dal divano sul quale continuavo a trascorrere inerte le mie giornate, andai alla finestra e aprii le imposte con risolutezza: una luce opaca colpì i miei occhi e l’aria fresca diede sollievo alla mia pelle. Iniziai a rinfrescarmi, a vivere, a respirare…tornai a guardare.

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