Mosca – Lolita Timofeeva
MOSCA
di Lolita Timofeeva
Lo appresero leggendo il quotidiano “Il Resto del Carlino” il primo giorno di lavoro dopo le feste natalizie. Gli impiegati dell’ufficio postale si affollarono increduli intorno al giornale. Lessero: “Incubo nella notte di Capodanno all’aeroporto di Mosca. Fermato un italiano residente a Bologna”. Con tanto di nome, cognome e fotografia. Fu proprio uno di quei casi in cui la gente è solita commentare: “Chi l’avrebbe mai detto! Ti crolla il mondo addosso quando pensi che un tuo collega è uno squilibrato con l’istinto di un assassino!” . Oppure: “E’ vero, pareva una persona mite, ma ultimamente mi era sorto il sospetto che non fosse normale. Parlava da solo! Lo avete notato anche voi?”.
L’arrestato si chiamava Callisto e il pellegrinaggio a Mosca era stato un evento che aveva architettato per anni, doveva essere il suo primo viaggio all’estero e anche il primo volo in aeroplano. Tutti i colleghi dell’ufficio ne erano al corrente. Consideravano Callisto un po’ strambo ma spassoso. E quel suo conversare con se stesso lo attribuivano prima all’eccesso di emotività, poi alla paura di volare e successivamente anche – così correva la voce – ad un misterioso innamoramento che gli avrebbe fatato la mente.
Callisto era cresciuto in una famiglia comunista ed era fiero della sua storia. Il padre, defunto da tempo, gli aveva lasciato in eredità una collezione di libri ingialliti di Lenin, Stalin e Dostoevskij, in lingua originale, e due vetrinette impolverate piene di oggetti curiosi di produzione sovietica, cimeli portati dai suoi lunghi soggiorni a Mosca. Vi erano: una macchina fotografica “Zenit” con uno specchietto incorporato che permetteva di fotografare dietro alla propria schiena senza che gli altri se ne accorgessero, un mini set-laboratorio utile allo sviluppo delle foto in qualsiasi situazione, una penna stilografica con il microfono incorporato, un binocolo militare potentissimo e una fotografia sbiadita, scattata nel dicembre del 1949. Immortalava il padre di Callisto in compagnia di Togliatti e Stalin al Cremlino, in occasione delle celebrazioni del settantesimo anniversario dell’allora leader sovietico. Il padre, per lui, era divenuto un mito.
Callisto, ad onta del suo nome che in greco significa bellissimo, non appariva affatto un campione di bellezza. Tozzo e basso di statura, aveva una faccia larga dalla fronte altissima per via di un principio di calvizie, il mento sporgente sembrava una mensola che fungesse da appoggio al suo naso adunco. All’ufficio postale i suoi colleghi lo avevano soprannominato “il Duca” per la sorprendente somiglianza con il duca di Montefeltro. Era un tipo taccagno, anche con se stesso. E per quanto possa essere modesta la retribuzione di un impiegato postale, il suo vestiario era ingiustificatamente infimo, così che spesso veniva fatto oggetto di dileggio. Possedeva un’unica giacca, blu e a quadretti, con pezze ovali applicate sui gomiti, e soltanto tre camicie: una rosa, una blu e una bianca, a righe. Per risparmiarle le portava in lavanderia non più di una volta al mese ma, pensando di confondere i colleghi, aveva escogitato un sistema alquanto scaltro: alternava le sue camicie ogni giorno, come se le avesse sempre fresche, e si avvolgeva al collo un foulard di cotone rosso per proteggere il colletto. Man mano che i polsini ingrigivano dallo sporco li avvolgeva su loro stessi e, alla fine del mese, quando la manica era arrivata oltre il gomito, era infine costretto ad andare in lavanderia.
In dieci anni di servizio agli uffici postali, i suoi colleghi non lo avevano mai visto con una donna, anche se ormai aveva passato la soglia dei cinquant’anni. Ma Callisto non era un misogino, anzi! Le donne quasi le beveva con gli occhi ma, per il gentil sesso quest’uomo era come fosse trasparente.
Chi sa quali fantasie potevano passare per la testa di quest’uomo quando di sera si sistemava nel suo lettone matrimoniale tutto solo. Dopo aver infilato il pigiama, formava con metà della coperta un morbido rotolo e si acquattava, aderendo ad esso, accarezzandolo, e con l’ altra metà si copriva, come fosse avvolto da un tenero abbraccio. Se qualcuno avesse potuto vedere l’espressione del suo volto, si sarebbe commosso.
Callisto era un abitudinario: si alzava sempre alla stessa ora, faceva sempre la stessa colazione, percorreva sempre le stesse vie per arrivare in ufficio e salutava i suoi colleghi sempre allo stesso modo, alzando una mano e scandendo: “Eccomi!”. La sua vita non era altro che una continua ripetizione di se stessa.
Ma negli ultimi tempi, al lavoro, avevano notato qualcosa di insolito in lui. Ogni tanto il volto del Duca si inondava di una luce mai vista prima. Dissimulava sorrisi raggianti, soffocandoli sul nascere, appena capiva di essere osservato. “Avete visto com’è distratto il nostro Duca?” si chiedevano i colleghi,” parla con se stesso, e quel suo modo buffo di chinare ripetutamente la testa…”
Una mattina il capoufficio annunciò entrando: “Ci sono grandi cambiamenti nella vita del nostro Duca: c’è una donna! È inequivocabile! Altrimenti come si spiega una bottiglia di spumante e un vaso di ciclamini nel carrello della sua spesa!”. Quanti pettegolezzi e quante battute si erano fatte quel giorno!
Tuttavia qualcosa era cambiato veramente. Quando, in una giornata di tepore autunnale, Callisto era rincasato dopo aver fatto un giro inconsueto in biblioteca della Sala Borsa, spalancò le finestre del salotto e si adagiò sul divano. Sprofondato, si mise a sfogliare la guida sulla capitale russa, appena presa in prestito. Accese il suo vecchio televisore ventiquattro pollici e, neanche a farlo apposta, udì la suadente voce della conduttrice che formulava proprio quelle fantasie accarezzate da mesi nel suo immaginario: “Questo viaggio deve essere considerato come il più dolce e romantico epilogo del meraviglioso romanzo d’amore che vivrete con la compagna che avrete scelto per la vita. Una splendida avventura attesa da anni. Per voi innamorati e felici, sarà il viaggio più bello e più entusiasmante di una vita intera…”. Cominciarono scorrere immagini delle spiagge assolate di un paese esotico.
L’uomo spense il televisore e chiuse gli occhi, nel tentativo di raffigurarsi una sua ipotetica compagna di vita, ma il ronzio di una mosca interruppe il suo abbandono. Callisto si alzò, deciso a cacciar via il fastidioso insetto. Ma la mosca si infilò in una delle vetrinette, rimasta semiaperta, e si appoggiò sulla sua fotografia ingiallita del padre. Il Duca si piazzò di fronte incrociando le braccia e esaminò la mosca con aria di disgusto notando che era sorprendentemente bianca. Più l’uomo la osservava, più l’espressione del suo volto mutava. Il corpo dell’insetto fittamente ricoperto di morbidi peli bianchi appariva come vellutato, i grandi occhi riflettevano mille colori come fossero intrise di mille realtà diverse. Sembrava un piccolo gioiello bizzarro. Callisto ammorbidì il tono: “Ehi! Sembri quasi fatta di peluche, però togliti dalla faccia di mio padre!”. La mosca, come se l’avesse compreso, si spostò sul binocolo. “Fila via!” sbottò Callisto. E la mosca volò via, fece il giro del salotto e si sistemò sul davanzale della finestra. Il Duca congiunse le mani dietro la schiena e, camminando avanti e indietro a piccoli passi, disse ad alta voce: “Detesto gli insetti! I cani e i gatti non li sopporto. Le donne pretendono troppo. Vedi, papà, sono condannato alla solitudine…”. Poi, data un’occhiata alla fotografia, concluse sospirando: “Sono tutto il contrario di te! Ma ci sarà una svolta nella mia vita, vedrai che andrò a Mosca! So che ormai non ci credi, ma ti sorprenderò”.
Sentì un ronzio sopra la testa, alzò gli occhi e disse: “Ma guarda che combinazione! Sei ancora qui? Vuoi venire con me a Mosca? A Mosca con la mosca…”, e cominciò a sghignazzare. “Eh, sarebbe troppo bello! Ti chiamerei Albina, potresti essere la compagna ideale del mio viaggio. Ovviamente saresti mia ospite, sono un uomo brillante! Eh, eh, eh! Saremmo proprio una bella coppia, però dovresti essere docile e dolce, mi dovrai obbedire. Perché qui è il Duca che comanda! Vai li!” disse puntando il dito su tavolino del computer sepolto dalle carte, bicchieri e tazze incrostate di caffè. La mosca si posò su una delle tazze. L’uomo si fece pensieroso.
“Albina, ma tu mi intendi?” borbottò stranito “allora è vero? allora è possibile? forse è il destino, è una cosa bella? ti sei messa pure sulla foto di mio padre, sarà un segno?” la sua voce si faceva più incerta.
Così Albina entrò nella vita del Duca. L’uomo la viziava. Le offriva mille prelibatezze, come un po’ di schiuma di caffè, briciole di panettone, avanzi della besciamella di lasagna, le faceva il bagno nello spumante, giocherellando con una cannuccia, le creò perfino un giardinetto con il vaso di ciclamini fucsia. La mosca, questo strano scherzo della natura, assecondava Callisto come fosse un qualsiasi animale domestico. Ma per il Duca l’insetto bianco stava diventando un qualcosa di molto più importante. “Sai ascoltare, Albina”, diceva, “mi capisci, sei ubbidiente e mite. Sono sicuro che provi affetto per me”. Perforando una vecchia scatola di fiammiferi costruì una casetta mobile per Albina. Non voleva lasciarla sola neanche per un’ora. La tasca interna della sua giacca diventò il rifugio permanente per la casetta della mosca e tutto ciò che il Duca desiderava condividere con questa creatura lo comunicava sottovoce, chinando il capo.
I due giorni previsti a Mosca dovevano essere intensi. Il primo sarebbe stato dedicato alla visita del Museo Tretiakovskaja Galeria e del Cremlino, il secondo alla ricerca di salmone in salamoia e di una bottiglia della famosa vodka “Putinka”. Questi prodotti si trovavano in ogni gastronom, cioè negozio di alimentari, ma Callisto volle acquistarli in un vecchio mercato decentrato, frequentato un tempo da suo padre. Ne sentiva parlare spesso da bambino.
L’uomo rendeva partecipe Albina di tutto ciò che evocava in lui la cultura russa. Così, visitando il Cremlino, accarezzava i muri narrando, con la testa chinata, i fatti legati al padre, guardava la stella rossa con ardore tenendo la mano destra sul cuore, sempre accertandosi al tatto della casetta mobile. Si commoveva fino alle lacrime, schiacciato dalla folla di turisti e di babuschki, di fronte alle icone all’interno della chiesetta, intrisa dal sentore di incenso e affumicata dalle candele. Era come se manifestasse un’esigenza del totale e del sublime. Finalmente poteva toccare con mano tutto ciò che padre gli aveva descritto con passione.
Uscito dal Cremlino, il Duca si imbatté in Nikolaj, un uomo sui cinquanta, con il viso rubicondo. Vendeva ai turisti decorazioni del periodo sovietico. “Solo trenta rubli” si rivolse in un italiano discreto a Callisto che non comprò nulla ma si mise d’accordo per essere accompagnato al “famoso” mercato il giorno dopo. L’uomo arrivò in un vecchio taxi scassato e si diressero al punto stabilito. Con una parlata soporifera Nikolaj disse: “Sa, una volta facevo proprio l’accompagnatore dei turisti ma ormai i giovani si sono fatti avanti. Sono aggressivi, vogliono solo i soldi, sono sleali. Cosa può fare un vecchio come me? Questa gente non ha più valori”.
Callisto non aspettava altro. Mitragliò Nikolaj con il racconto della storia di suo padre, esaltando gli ideali del comunismo. L’uomo lo ascoltava silenzioso. Callisto disse: “Chi sa come eravate felici, da bambini, in un paese così!”.
“Si, certo, abbiamo avuto una infanzia militarizzata” rispose l’uomo “dovevamo essere dei soldatini. Mi sembra quasi di tornare indietro nel tempo”.
Callisto non comprese l’ironia e continuò la sua estenuante narrazione. Si interruppe solo per gli acquisti, sembrava perfino di aver dimenticato l’esistenza di Albina. Quando scesero davanti albergo era arrivato ad elencare i cimeli del padre che custodiva in due vetrinette. L’uomo diventò scuro in viso. Ma Callisto continuava: “Mio padre amava la vostra gente, ha viaggiato molto in Russia. La macchina fotografica l’ha portato da Perm’.
Nikolaj scoppiò: “Questo ottimismo sclerotico ufficiale l’ho già sentito da qualche parte! Ecco, mentre la nostra gente viveva in miseria, il partito sovietico manteneva quelli come suo padre! Che non era altro che una spia del i KGB! Ma vaffan…!” Si girò e si dileguò senza prendere nemmeno il compenso.
Callisto rimase fermo in mezzo alla via innevata, con il berretto in mano e il cappotto slacciato. “Non credergli, Albina…” sussurrò. I suoi occhi liquidi intravedevano passare annebbiato il flusso di gente come in un film al rallentatore. Lui, Callisto, si sentiva così piccolo in questa città enorme e indifferente, si sentiva ferito, sconfitto, ingannato, umiliato, avvelenato.
All’aeroporto Sheremétjevo si diffondeva l’odore acre di crauti e di salsicce fritte. La funzionaria della dogana era una donna di mezza età. Aveva uno sguardo algido e vetroso. I suoi capelli radi erano acconciati con un miserevole nodo stretto sulla nuca, che tirava la pelle pallido-verdastra che copriva il volto scarno. Tuttavia il rosso fiammante del rossetto e il tacco alto tradivano la sua indole conquistatrice. Salda sulle gambe allargate, stava quasi china sopra Callisto che si sentiva ancora più piccolo. Dopo aver controllato il suo passaporto e il documento di viaggio, disse in inglese: “Mi mostri il contenuto del suo bagaglio a mano”.
Callisto aprì la borsa e la doganiera estrasse con le sue mani, dalle unghie smaltate di rosso, la bottiglia di vodka e la sportina con il salmone in salamoia. Callisto cominciò a innervosirsi. La donna lo penetrò con lo sguardo pungente e pronunciò: “La vodka è un liquido, non la può portare. Per quello che riguarda questo salmone” e frattanto aprì il sacchetto e ne aspirò l’odore “non può portare neanche questo. Non è confezionato sottovuoto ermeticamente”.
Callisto impallidì, accarezzò con la mano destra la scatola di Albina e le disse sottovoce: “ Le nostre leccornie per festeggiare il ritorno…” e rivolgendosi alla doganiera in un inglese incerto: “No, non può! Volevo dire non potrebbe, non dovrebbe… privarmi di questo salmone. Sono andato fino al mercato per procurarmelo. Lo devo assolutamente portare in Italia. Io lo devo…”.
La doganiera, scandendo ogni sillaba, rispose: “Lo può consumare qui, davanti a me, prima di attraversare la dogana” e soppesando il pacco con la mano aggiunse sorridendo : “Due chili di salmone”. Poi, si girò verso il suo collega e gli disse in russo: “Boris, stasera si fa un bel festino”.
Boris, un uomo giovane con la pelle butterata, guardò la collega con sorriso di complicità.
Callisto afferrò il pacco con il salmone con tutte e due mani e lo attirò a sé: “Sì, d’accordo, me lo mangio, ma dopo, lì nella sala d’aspetto…”.
La donna, anche lei afferrando il pacco con le mani rapaci lo attirò a sé, e a denti stretti pronunciò: ”Qui, davanti ai miei occhi!”.
Callisto allentò la presa rassegnato e la donna si impadronì definitivamente del bottino. Lo fece sparire insieme con la bottiglia di vodka sotto il banco. Nella fila, dietro Callisto, qualcuno pronunciò in russo: “Ecco, in questo paese non cambierà mai niente!”
Il Duca aveva il volto paonazzo, sbuffava e ogni tanto metteva la mano nella tasca interna della giacca per controllare la scatola di Albina.
La donna lo fissò con sospetto e disse: “Cos’ha in tasca? Valuta da nascondere? Un qualcosa di illegale, forse?”
Callisto sentì il freddo del sudore scorrere sulla schiena. La doganiera lo guardò con espressione di superiorità e, volgendosi verso il collega, pronunciò: “Boris, questo signore è un soggetto sospetto, lo dobbiamo perquisire”, e con il tono perentorio intimò a Callisto: ”Ci segua!”.
Callisto obbedì. Entrarono in un ufficio disadorno con le pareti verniciate di verde e senza neppure una finestra. In mezzo alla stanza c’era solo un tavolo con due sedie. Sul tavolo una lampada diffondeva una luce fredda.
Callisto cominciò a sbottare: “E’ un’ingiustizia! Mettetemi in contatto con la mia ambasciata! Immediatamente! Chiamate la polizia!”
I doganieri si guardarono e la donna,sorridendo a fior di labbra, disse in russo: “Ora ti faccio vedere io la polizia!” e aggiungendo in inglese con voce metallica: “Le faccio notare che sono le ore ventidue e quindici, gli uffici sono già chiusi. Domani è domenica, e se non bastasse, il suo visto scade oggi alle ore ventiquattro”.
Callisto sussurrò chinando la testa: “Conviene darle ragione pur di partire, forse…” e rivolgendosi alla doganiera disse: “Tenete pure il salmone e la vodka, ma lasciatemi partire. Per favore…” .
I doganieri si scambiarono sguardi ironici mentre la donna proseguiva: “Abbiamo il dovere di perquisirla. Si svuoti le tasche per favore”.
Il Duca mise sul tavolo il portafogli, le chiavi di casa e due caramelle alla menta. La donna fece un segno a Boris, il quale si avvicinò e controllò tutte le tasche di Callisto. Estrasse la scatola con Albina e la porse alla doganiera. Appena la mosca fu liberata, prese il volo e dopo aver fatto un giro nella stanza si pose sul naso della doganiera.
“Albina!” esclamò Callisto.
“Ma come si permette!” strillò la donna scacciando l’insetto dal naso. La mosca si trasferì sul tavolo.
Callisto tremò vedendo la doganiera avvicinarsi al tavolo stringendo il suo passaporto in mano: “ La supplico, non lo faccia! È una mosca particolare!” Sentiva pulsare il sangue nelle tempie, la debolezza affievoliva le sue gambe, il respiro gli mancava. Cominciò a toccarsi con le mani il collo, il torace, lo stomaco, ad asciugarsi il sudore sulla fronte.
Una botta e “PLAFF!!!”, mentre il passaporto si impregnava di un liquido giallastro.
Da quel momento in poi il Duca non ricordò più niente.
Solo quando Boris, con l’aiuto di altri due colleghi, lo staccò dal collo cianotico della donna, realizzò che due poliziotti appena entrati con le manette erano lì per lui.
Il Duca alzò tutte e due mani e disse: “Eccomi”.
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