Essenza di Libertà – Khadijatou Ndiaye

ESSENZA DI LIBERTA’

Agosto, da Parigi a Toulon ed ora è la volta di Nizza per poi indirizzarsi a Roma via Ventimiglia.

Che strano itinerario! Certo, la voglia di transitare a Roma per lei è tanta e così decide, alla fine di uno  stage, di viaggiare senza permesso alcuno. Una settimana in Italia e dopo a ritroso per prendere il volo a Parigi e rientrare quietamente alla sua base, il Senegal: la sua corteccia; con gli occhi chiusi riesce quasi a sentire il profumo della sua terra. Ma nel profondo, non ha un richiamo verso il  vissuto lasciato alle spalle.

La piccola Kiné, all’età di soli otto anni, non riusciva a sopportare i chilometri che la distanziavano dalla madre Awa. Consumata nel profondo dalle innumerevoli domande che le frustravano il cuore senza riscontro, non perdeva mai l’occasione di ripetere come un tam-tam la stessa oramai retorica domanda: “Mamma, ma perché non posso stare qui con te?”. E Awa, con occhi sfuggenti rispondeva sempre, con un tono ingannevole, per lei stessa e per la figlia: “È per il nostro bene tesoro; tu vai e stai tranquilla, io starò con te in ogni momento…”. E girava istintivamente il suo bellissimo volto dall’altra parte per salvarsi dallo sguardo della bambina che come una calamita la perseguitava per entrare in sintonia col suo; lei invece, con sofferenza evidente, cercava di nascondere nobilmente il magone che veniva smascherato dallo specchio davanti a lei.

Kiné fece il giro di scatto e si mise tra lei e lo specchio, gridando a singhiozzo: “Ti prego mamma non ci voglio andare dalla zia!” circondando al  contempo il suo giro vita con le minuscole braccia, stringendo più che poteva. Awa si dimenò infastidita e la prese per le spalle con tono secco: “Falla finita! Tua zia Dior non ha figli e tu andrai a farle compagnia”. Singhiozzando anche lei, si mise seduta sul banc (una piccola panchina all’angolo della camera). Kiné la seguì, sempre fra le lacrime; lei allora la prese e la spalmò a sé mormorandole velocemente: “Figlia mia non ti ci mettere anche tu! È già tutto così difficile..”. Una bambina di quell’età non poteva capire perché, con due sorelle e un fratello più grandi e altri due più piccoli, dovesse andare proprio lei dalla zia Dior. Non le era di nessun conforto andare a riempire il vuoto nella vita di qualcuno, sapendo quanto dolore stesse provando sua madre, nonostante la presenza degli altri figli. Dopo un po’ si calmò, con gli occhi avvolti nella tristezza di chi deve staccarsi obbligatoriamente dal cordone ombelicale e da una famiglia apparentemente serena.

Dalla camera sentì l’eco della voce di suo padre, Ousmane, e uscì velocemente per unirsi a lui. Era appena rientrato dalla moschea dove aveva contribuito alla preghiera del mattino. Avvolto nel suo sabador blu bakha (abito tradizionale maschile) si dissetava con gusto, seduto nel bel mezzo del cortile.

Di famiglia religiosamente esemplare, bello alto e magro con un portamento nobile e i lineamenti  raffinati: due occhi da cerbiatto, un naso piccolo e una bocca degna di un dipinto dell’800 che arricchiva il suo viso. 

La casa di famiglia era divisa in due aree, con uno spazio grande come un’arena: da un lato la tana della sorella maggiore e del fratello minore del padre di Kiné. Dall’altro lato, la madre, il papà, e sei figli in una stanza di poco più di trenta metri quadrati; più a sinistra la nonna e la più piccola delle sorelle di papà.

Andò da suo padre per cercare conforto e lui la tenne a freno dicendole: “Allora, siamo in partenza…”, con un cenno di sorriso di consolazione. Non era molto affettuoso. Ad ogni modo, partirono presto per arrivare nel tardo pomeriggio in un villaggio nel sud, dove risiedeva la zia Dior con suo marito, altre due mogli e un esercito di figli. Zia Dior era stata proposta per ricoprire il posto della cugina scomparsa da poco. Nella casa, tutto rigorosamente sterrato, quasi in mezzo al niente, all’ora del riposo notturno, le cases (camere con tetto di paglia) miracolosamente rette su con argilla e conchiglie, potevano paragonarsi a scatole di sardine. Bisognava sistemarsi dove c’era spazio. I coniugi avevano ognuno la propria, il marito anche, per permettere alle mogli di fare a turni per passare la notte. Maschi e femmine separati, come vuole la religione musulmana. Il cibo, perché bastasse per tutti, era a menu fisso: al mattino, pane e duté; a mezzogiorno, riso con variante di pesce o carne e idem per la sera con il couscous. Passarono così tre interminabili anni, tra molestie e punizioni sigillati nella sua anima.

Quando finalmente tornò a casa, dopo un soffio, era già tempo di migrare nuovamente da un’altra vittima della sterilità. Una casa in città, più accogliente e altrettanto popolata da mogli, figli, nipoti e djam, “servi”: ragazzi e ragazze come lei, parenti affidati per stare al servizio della famiglia ospitante.

La giornata del djam iniziava con la sveglia all’alba, per sfruttare al meglio il tempo, allenare la schiena nei lavori di casa, preparare la colazione per tutti, lavare i piatti, tazze, e solo dopo andare a scuola.

Finalmente arrivò il giorno del rientro nella sua, sempre amata e desiderata, famiglia. La tregua però durò poco, due soli mesi, perché arrivò inesorabilmente il turno di una sorellastra, Fatou, un’altra delle vittime del peggior destino che possa colpire una donna in una cultura patriarcale: non poter generare figli.

Lì si spalancarono per Kiné le porte dell’inferno: aveva quasi quattordici anni. L‘affidataria Fatou si era appena sposata in seconde nozze e si apprestava a trasferirsi col marito, appena eletto prefetto di una città nell’estremo sud, quasi al confine con la Guinea Bissau. La notte, ogni volta che ne aveva l’occasione, il cognato Badara entrava furtivamente nella sua stanza e mettendosi in ginocchio, l’annusava come se avesse voluto immagazzinare il suo odore nell’anima; poi cercava di perlustrare il suo corpo mentre lei si dibatteva come una bestia feroce per lo schifo provocato dal contatto con le sue mani…ogni volta lui desisteva, con gli occhi sbarrati e un tremolio evidente di insoddisfazione, minacciando che prima o poi sarebbe riuscito ad averla…

Kiné stampò per sempre nella memoria il ricordo di un terribile pomeriggio, quando la sorellastra andò a trovare un’amica. Gli uffici del cognato erano nella parte anteriore della casa, quindi non appena la moglie uscì, lui andò in cucina dove Kiné stava lavando i piatti. Lei non lo sentì arrivare fino a quando non l’afferrò da dietro, circondandola con le braccia e schiacciandola contro il muro unto e sporco: era in trappola e questa volta non riuscì facilmente a liberarsi. Badara continuava a ripeterle: “Stai ferma, tu sei mia tanto quanto tua sorella, senti cosa ho qui per te…” Era così volgare che le veniva da vomitare… piangendo come una disperata gli intimo di lasciarla in pace o avrebbe raccontato tutto alla moglie. Lui rispose affannato ma con sicurezza: “Tanto non ti crederà mai: è convinta che io l’ami. Ma ora sei tu quella che voglio…” Un gemito lamentoso chiuse il suo vanto… Kiné non capì subito… si rese conto d’avere il pareo un po’ bagnato a livello della coscia destra e pensò: “Mi ha pure sbavato!”.. ed esclamò: “Che schifo!” Solo qualche anno dopo il primo flirt, realizzò che quello era un libero sfogo del suo sperma. Era traumatizzata e non sopportava di legare i momenti di scoperta dell’intimità, che avrebbe potuto vivere come altre ragazze, al ricordo di quel episodio che l’aveva segnata. Con quella cicatrice nell’anima imparò a diffidare della maggior parte degli uomini.

Era la fine dell’anno scolastico… prima di partire decise di raccontare alla sorella che suo marito l’importunava, ma Fatou non la lasciò neppure terminare: iniziò a dirle e ripetere che era bugiarda e, peggio ancora, irriconoscente. Con la partenza di Kiné, ne approfittò e scrisse una lettera al padre per comunicargli quanto Kiné fosse stata maligna, mentre lei faceva i bagagli con il cuore pieno di gioia. Uscì finalmente da quella casa, sollevata all’idea di non dover più temere l’arrivo della notte nel suo letto d’inferno. Le molestie forse non potevano andare oltre perché per la religione è di fondamentale importanza che la donna arrivi vergine al matrimonio.. e ogni volta Kiné pensò di dover qualcosa alla legge musulmana che poteva aver contribuito a domare l’adrenalina degli uomini, impedendogli così di completare il loro rituale abusivo.

Arrivò a casa felice di ricongiungersi alla famiglia, ma successivamente all’apertura della lettera arrivò puntuale il rimprovero del padre che l’accusava di essere una bugiarda: “Fencate e nafekh – défégane sa diekaru mak dina def dieuf diou bon dji ghay waf – doto diok thi keurghi – Diekhna doto dem fen”.Sei bugiarda e metti pure zizzania, pensi che il marito di tua sorella osi minimamente fare quelle cose orrende che hai raccontato? Non ti muoverai più da qui. Rimarrai a casa d’ora in poi!”. 

Dentro di sé Kiné scoppiava di felicità all’udire quelle parole, ma non poteva esprimerla per non essere sgridata.

Era a casa da circa un anno e mezzo… un bel giorno, al mattino presto arrivò un cugino della madre, Malick, avvolto nel suo boubou color verde mela – salutò con l’energia di sempre, un sorriso popolare e una stretta di mano a tutti… la sua allegria fu rassicurante perché generalmente in Senegal quando ci si reca a far visita così presto è per comunicare brutte notizie… Si chiuse con il padre di Kiné nella stanza accanto alla porta d’ingresso… Tutti furono incuriositi dal fatto che parlassero a bassa voce e si misero a origliare, senza successo…

Quando uscirono, il padre di Kiné era platealmente il riflesso della felicità..

A passo deciso entrò in camera della moglie e dopo ne uscì con lei per raggiungere lo zio sotto l’albero di mango. Awa a testa bassa iniziò a dire: “Dieureudieuf waay magu diambur – defga lubaakh waay – ndiabott gui benala”..Grazie mille fratello mio. Hai fatto una cosa molto bella e te ne ringraziamo tutti di cuore; siamo tutt’uno”. Senza aggiungere altro. Anche se non lo era, suonava come un ordine da cogliere in silenzio.

A questo punto Kiné e le sue sorelle erano terrorizzate perché intuivano cosa stava per succedere… Quando lo zio andò via, il padre le chiamò subito tutte e con un lungo discorso annunciò lo scopo di quella visita: si trattava  del matrimonio combinato tra suo figlio e la sfortunata Kiné. 

Lei si sentì mancare e il suo primo pensiero fu: “Ma la mia famiglia allora proprio non mi vuole! Tutta la mia infanzia l’ho vissuta girando da una parte all’altra e adesso….il matrimonio. No, assolutamente non voglio sposarmi con un cugino che ho visto poche volte nella mia vita e con cui non ho mai avuto a che fare!”.

Per loro, era un onore ricevere una proposta di matrimonio prima delle sorelle più grandi… Per Kiné ancora sofferenza. Anche le insistenze del padre causarono dolore in lei, troppe volte costretta e inascoltata.

Quando lo zio Malick tornò munito di gurò (cola) – convinto di poter benedire la sua proposta – trovò la sorpresa che delicatamente il padre di Kiné Ousmane cercò di spiegargli.. Lui si girò con il calore della rabbia che gli copriva il volto dicendo: “Kenn mussugnoo bagne, yow sugnu deret gua! walla deet? Sama domu mak gua te dina la khamal leen, bo seyul ak sa domu nidiay Ibrahima, do to sey ak khenn ba abadann!” – “Nessuno ci ha mai rifiutati in questo modo; tu Kiné sei sangue del nostro sangue! Oppure no ? Sei figlia di mia cugina e per quanto è vero Dio se non sposi tuo cugino Ibrahima non sposerai nessun altro uomo in vita tua.”

 Il padre di Kiné, disturbato della reazione dello zio, si alzò con autorità ed emise la sua sentenza, appena mormorata alla figlia:”Yow mii, yay sugnu gacce, amuloo theur thi diabott gui – Tu non sei degna di questa famiglia, sei la nostra vergogna..

Seguì la risposta di Kiné: “Già, solo perché non faccio quello che volete?”. E scoppiò a piangere dicendo che se non l’avessero  lasciata in pace sarebbe scappata di casa.

I due uomini dissero a gran voce: “Demal, Demal!  – “Vai, vai!”

 Ora Kiné ha più di venticinque anni, è ancora da sposare e forse, come augurato dallo zio, non sposerà davvero mai nessuno.

Arrivata a Roma, alla stazione l’aspetta una coppia di amici, conosciuti tre anni prima in Senegal nel villaggio vacanze dove lavorava. Abitano a pochi chilometri dalla capitale. Lei, Maria, è piccolina, capelli scuri con una frangia che quasi copre i suoi bei occhi verdi.. non è magra ma è molto graziosa e parla sempre con un accento romano molto marcato.. ha sempre la battuta pronta.. Suo marito Maurizio è un tipo diverso, anche lui divertente ma più chiuso, di altezza media, semplice e timido.

Kiné ha una piccola borsa con poche cose dentro, giusto per qualche giorno.   

Una volta arrivati a casa loro, rimane piacevolmente sorpresa dalla bellezza del posto e della casa dove trovano il loro figlio, Andrea, di dodici anni. Al secondo piano, di fronte alle scale, arrivano alla camera degli ospiti. Qui Kiné si commuove vedendo l’arredamento misto con articoli africani e italiani. Sul comodino, un suo ritratto, in una foto scattata da loro in Senegal. Le dicono: “Accomodati; questa è la tua camera”. Kiné crolla in lacrime, emozionata, chiedendo: “Ma davvero? Grazie, grazie..”. Non è abituata a così tanto.

La sera stessa i padroni di casa offrono una sorta di rinfresco di benvenuto per Kiné, con parenti e amici…

Il giorno dopo vanno nel loro negozio di elettrodomestici, dove lavorano i due e il fratello di lui. Raccontano a Kiné che stanno cercando una persona per seguire la parte magazzino e sistemare la merce sugli scaffali e lei di getto risponde con aria disinvolta e in un italiano un po’ insicuro: “Lo faccio io, non c’è problema”. Maria esclama: “Ma che vuoi scherzare, non va bene illudere le persone – con un sorriso e il dito puntato verso la sua fronte.. e continua: “Magari avessi una persona come te ad aiutarmi.. e Kiné risponde subito: “Se vuoi resto qui e ti aiuto.” Maria stenta a crederci e riprende: “Ma davvero vorresti rimare in Italia?”

“Non lo so, ci sto pensando.”

“Va bene pensaci poi ne parliamo.”

La sera, non appena Maurizio arriva a casa, gli riferisce il loro discorso, e lui dice subito: “Se vuoi resti qui con noi, non ci sono problemi perché avresti già un lavoro.. decidi tu. Ci farebbe un immenso piacere”.

 Per Kiné si può aprire un mondo nuovo, una nuova vita. Dopo una settimana di riflessione decide di restare in Italia: lascia il lavoro in Senegal con avviso tramite raccomandata, chiede ai colleghi rimasti a Parigi di riportare il resto del suo bagaglio con loro e infine, il compito più pesante di tutto, annunciare ai genitori che non tornerà a casa.

Per un anno il padre non le rivolgerà più la parola.

 Ma è anche l’inizio di un’avventura da clandestina in Italia, al fianco di una famiglia che le vuole bene e un lavoro.

Una scalata di montagna rocciosa che ha imparato a percorrere con la testa, adagiandoci le esperienze e cogliendo i frutti dolci e amari.

 

 

 

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