Joi – Alessio Adamiano

Joi

di Alessio Adamiano

Tutto è iniziato per scherzo. Pensavo che rimettersi in discussione potesse essere divertente, che plausibilmente avrei svelato prospettive sconosciute di me o non ancora ben formate. Ma non è stato così. Ridicolo, ecco cosa.
Scendo di casa con calma, come al solito. Oggi nebbia, domani chissà, E così che si vive qui, è così che viviamo noi, evitando il ferro da stiro, attaccati a ogni metro cubo di gas.
– Cioè ti rendi conto? Trecentocinquanta euro di gas!
– Porca…
– Cioè, io non li pago! Le mie coinquiline sono rimaste un mese più di me in casa! Io piuttosto sarei morta di freddo per trecentocinquanta euro.
– Guarda che è normale, anche noi abbiamo avuto una bolletta così alta. Anzi, di più.
– No no, io non li pago. Senti scopiamo?
– Se non paghi la bolletta non ti scopo.
– Allora vaffanculo!
– Grazie, anche a te.
– Ci vediamo.
Camminando, guardando in giro – nebbia permettendo – si riconoscono gli individui della categoria di cui faccio parte anche se alcuni, forse i più, si nascondono come me del resto. Corrono sulle bici imbacuccati nei loro cappotti, comprano Winston blu o Chesterfield blu o vanno in Slovenia e comprano stecche di Marlboro light a prezzi di convenienza. Non cercano lo scontro né l’incontro, ma semplicemente il modo di spendere meno per vivere meglio e scroccare da bere il più possibile. Fregare gli indigeni risulta troppo difficile il più delle volte. Meglio cannibalizzarsi a vicenda. I fuori sede sono di fatto le vittime più appetibili.
Scendo a comprare le sigarette. Le due tabaccaie super dotate mi guardano e io guardo le loro tette.
– Winston blu morbide per favore!
– Tre e settanta.
– Grazie e ciao – tutto attaccato, perchè non devono sospettare delle mie fantasie erotiche sulle loro tette e su quei sigari vanigliati enormi posati sugli scaffali dietro di loro.
Accendo una sigaretta mentre cammino. È una cosa che mi dà gusto camminare e fumare, a costo di congelarmi le mani, mi dà modo di pensare quando sono solo, mi aiuta ad isolare i pensieri in una nuvola di fumo, opponendo con malizia nebbia alla nebbia. Adesso non vado più in bici, ma sono sicuro che con la primavera ricomincerò anch’io a pedalare. Impiego circa venti minuti per andare a piedi fino ai laboratori e solitamente, una volta arrivato, fumo una sigaretta.

II
Arrivo in ufficio con mezz’ora di ritardo, come al solito. Il portatile ultimamente mi dà parecchie noie e impiega una vita ad accendersi, ma mi permette di scrivere e di lavorare, mi risparmia un sacco di calcoli, mi dà la possibilità di rispondere alle e-mail e per questo lo perdono. È da tanto invece che non sento più Marta. Forse non dovrei più chiamarla. Cerco il numero nella rubrica.
– Ciao. Come stai? – la mano mi trema.
– Bene e tu?
– Alti e bassi. Sei occupata adesso?
– No no. Sto andando a comprare le sigarette. Sei a Roma?
– Ravenna, in laboratorio.
– Come va il lavoro?
– Alti e bassi.
– Qua nevica ancora. È sempre brutto.
– Passerà.
– A casa?
– Le solite cose. Stanno tutti bene.
– Venerdì si è laureata Zulu.
– Mmh…
– Sono tornata a Roma per vedere la proclamazione. Sai, i cani sono un po’ dimagriti.
– Come stanno?
– Te l’ho detto, un po’ dimagriti.
– Tua madre li terrà a stecchetto.
– Già… – dice, mentre un sospiro le scivola dalle labbra per poggiarsi lentamente sul magnete del telefono – Ultimamente mi sembra di vivere in un limbo.
– Mmh…
– Come se fossi in un sogno.
Un collega entra rumorosamente nello studio e d’improvviso sento il sangue salirmi nella testa in un grande fiotto di calore. Lo vedo chiudere velocemente la porta mentre con il viso accenna a un gesto di scusa per aver interrotto la telefonata.
– Adesso mi sa che ho da fare.
– Senti, ma quando torni a Roma?
– Non lo so. Scenderò con la macchina, quindi mi tocca viaggiare con qualcuno. Sai, la benzina e il resto…
– Quando sei a Roma fammi uno squillo, così ci vediamo.
– Sicuro.
– Se ti va possiamo scopare anche.
– Non lo so.
– Come non lo sai?
– Sono in un periodo un po’ così.
– Così come?
– Alti e bassi.
– Sei uno stronzo senz’anima.
– A presto.
La bolla mi esplode nel petto e va giù fino all’intestino. Percorro il corridoio dei laboratori ed entro nel bagno dei disabili. Prima di sedermi sulla tazza pulisco attentamente la tavoletta con carta igienica e Napisan. Sono decisamente fissato sull’igiene intima, penso per colpa di mia madre e di mio zio. Lei mi ha sempre intimorito con le storie sui figli delle sue amiche e le loro infezioni multiple agli organi genitali, lui ha avuto solamente l’epatite C. Mi siedo e fisso il riflesso delle mie carni flaccide e grasse nella plastica della porta verde, cadendo senza accorgermene in uno stato di ipnosi profonda.
III
Mi alzo dalla sedia e vado a prendermi un caffé. Torno su nello studio e trovo una mail in arrivo. È Joi ad avermi scritto.
“Con Giannine – la sua fisio-psico-terapeuta – abbiamo parlato a lungo in questi giorni, proprio dei problemi di cui mi hai detto. Anch’io non riesco a capire se ho realmente un’anima o se ho semplicemente bisogno di qualcuno che mi faccia credere di essere speciale, di qualcuno che creda che io ho un’anima molto grande e splendida. Ma è incredibile quello che mi è successo. Non avevo mai provato un orgasmo in vita mia fino a ieri. Oggi mi sento nuova. Non voglio più sprecare tempo. A presto”.
La nebbia fuori copre tutto e dà la piacevole sensazione di essere nascosti, invisibili. Gli altri tornano a casa prima di me e spesso mi capita di rimanere a lavorare fino a tardi. Uscendo dai laboratori mi accorgo del buio dipinto di bianco, dell’oscurità piena d’acqua che annega tutti i rumori e le immagini veri, lasciando solo cose irreali ed è questo il fottuto punto.
Io non amo più Marta. Io amo Joi. Passerei con lei il resto della mia vita e se solo me lo ordinasse andrei fino a Maputo e abbraccerei la sua famiglia, bacerei in bocca le sorelle e i fratelli e accarezzerei i suoi cani come fossero figli miei.
– Certe volte voi Europei – diceva – sembrate proprio dei bambini. Fate delle cazzate enormi. Vi perdete in un bicchiere d’acqua, meditando se sia mezzo vuoto o mezzo pieno. Per un Africano non c’è differenza, si limita a prendere quello che c’è. Lui lo beve il bicchier d’acqua!
Lei è il mio Ejo Takata, è il mio maestro zen, ma invece di avere gli occhi a mandorla e fumare in continuazione ha la pelle scura e profumata come l’hashish e fa cinque docce al giorno, pure d’inverno. L’ho conosciuta una sera, al Cineforum estivo organizzato dagli studenti universitari. Strana razza i fuorisede. Non si odiano, non si amano, vivono nella totale indifferenza reciproca eppure continuano a cercarsi incessantemente.
Era giugno e lei sedeva con un bicchiere di bianco sulle panchine di plastica. Avevo paura soltanto a guardarla; se voleva con i suoi occhi scuri poteva penetrare dentro di me sotto forma di nube notturna o di bruma senza che io me ne accorgessi. Mi avrebbe lanciato una stregoneria per ammansirmi e addomesticarmi alla sua volontà, avrebbe costruito una bambola voodoo con le mie sembianze per poi infilarle mille spilli nelle pupille. Fu lei ad avvicinarsi la prima volta che ci parlammo e io un giorno la baciai perché non ne potevo più. Stavo impazzendo. Ogni volta che vedevo una ragazza di colore per la strada la seguivo per vedere se fosse lei. Se qualcuno citofonava a casa o mi telefonava incominciavo a sudare freddo e qualsiasi cosa stessi facendo cadeva immediatamente nell’oblio. Mi aveva lanciato un incantesimo tremendo. Non potevo pensarla senza sentirmi pervaso da un sentimento sessuale denso di paura e rabbia e frustrazione e morte. Sì, senza dubbio sarei morto. Adesso sono due mesi che non ci vediamo e ogni giorno le scrivo pagine e pagine. Le ho chiesto quando sarebbe tornata a Ravenna, ma non mi ha risposto. Le ho telefonato, ma niente.
IV
Era in ritardo di due ore all’appuntamento e sigaretta dopo sigaretta aspettai fino alle quattro prima di vederla arrivare. Scese dalla macchina di non so chi con un ragazzo alto e magro, con la pelle scura e lo sguardo triste. Mi veniva incontro e io provai una fitta al petto sentendo dopo tanto tempo quel suo profumo così sensuale e forte.
– Da quando sei tornata non mi hai chiamato.
– Tu non vuoi me…tu non vuoi nessuno…non sei normale, non dai niente e prendi poco a poco per non farti scoprire. L’ho capito perché hai sempre le mani fredde.
Guardai in basso, penetrando la strada, l’asfalto, sotto la terra, sotto gli strati dimenticati nell’oblio della tumulazione urbanistica, tanto in basso da poter vedere i morti sprigionare zampillate di vermi dalle orbite cave.
– Succhi il calore della gente, lentamente, con quelle mani.
Non ho un ricordo nitido di cosa successe dopo. Guardavo le mie mani gocciolare sangue dappertutto. Avevo perso quel poco che il mondo non mi aveva ancora tolto, e non sopportavo l’idea di non poter combattere contro nessuno per potermelo riprendere, o per provarci almeno. Diedi un pugno forte nel muro e cominciai ad urlare. Un secondo pugno, e poi un altro, e un altro ancora. Joi intanto piangeva accovacciata. Guardai la sua faccia. Era blu e gonfia. Guardai le sue unghie spezzate e il sangue e le dita arrossate e il buio tutt’intorno. Aveva cercato di fermarmi, ma non c’era riuscita. Non stavo picchiando più il muro, ma il ragazzo che era con lei. Lo colpii forte, e ogni mio colpo era liberatorio come il ricordo del sogno più osceno. Credevo che quel ragazzo dallo sguardo triste, slanciato e dalla pelle nera come una formica fosse il suo nuovo amante. Nella foga e nella menzogna del mio orgoglio ferito, non vidi che era giovane e che le somigliava. Sì, era tutta una bugia, perché se è vero che fingersi è conoscersi, in quel momento io pensai che lui fosse solamente uno sporco negro, uno come tanti. Mi sentii pervaso da una vergogna liberatoria, come se avessi commesso un incesto e mi fossi accoppiato con la parte più abietta dell’essere umano, di me. Lo colpii. Aveva perso i sensi come li avevo persi io. Lo colpii ancora. Avevo reso irriconoscibile lui come ero diventato irriconoscibile a me stesso, e per questo lo colpii. Joi mi aveva parlato tantissimo di lui. Si chiamava Miguel, era suo cugino, studiava lettere a Lisbona ed era innamorato di Pessoa: lo colpii forte, sempre più forte.

Tornai a casa lentamente. Il sole mi bastonava con quella brutalità delatoria che può capire solo chi ha venduto la proprio anima, chi ha perso il suo uccello blu nella notte. Questa è la mia vendetta – pensai – la vendetta di quel Bernardo Soares che a tutti e due piace tanto, della mia immaginazione frustrata e mutilata.
Passai ore e ore sul letto, fumando e aspettando che qualcuno mi venisse a prendere, ma quella mattina non venne nessuno e allora chiamai Marta. Le dissi che mi dispiaceva per tutto e che l’amavo, che l’avrei scopata tutte le volte che avesse voluto, che avrei condiviso con lei la natura dei miei alti e dei miei bassi e che soprattutto non le avrei mai più mentito, ma non le raccontai niente di ciò che era successo. Mi disse che sarebbe venuta a Ravenna il prima possibile, che anche lei mi amava e sapeva che io invece non potevo amarla, ma che capiva e voleva che le succhiassi via il calore con le mani. Non mi restava altro da fare che aspettare.
I carabinieri arrivarono il giorno dopo. Mi processarono per lesioni gravissime. Per fortuna mio fratello è un bravo avvocato e in appello riuscì a farmi avere, oltre alle attenuanti generiche, uno sconto della pena per la distinzione e l’impegno da me dimostrati durante il servizio civile. Tutto sta nell’impegnarsi per la parte giusta e io l’avevo fatto.
Non rividi mai più Joi, né mi sognai di richiamarla. Avrebbe potuto imprigionarmi nuovamente in un incantesimo di follia con una sola goccia del suo profumo. Bruciai le sue foto, cancellai le sue e-mail, immersi nel miele i suoi vestiti e li sotterrai. Ma tutto ciò non è bastato; la potenza della sua magia mi ha raggiunto lo stesso. Da quel giorno infatti ogni notte sogno Miguel che la bacia con passione, li vedo fare l’amore mentre infilano nelle mie pupille mille spilli cocenti fino all’alba.

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